Nell’ultimo numero, facendo alcune considerazioni sull’esito del voto, mi ero soffermato sulla inopportunità dello strumento referendario nei confronti di questioni così complesse e di così ampia portata. Ebbene, l’idea che il referendum, in quanto espressione diretta del popolo, sia il migliore degli strumenti democratici, suona ancora più sbagliata dopo quanto accaduto in Gran Bretagna con il quesito sulla permanenza di Londra nell’Unione Europea, conclusosi con la cosiddetta Brexit. Il terremoto susseguito al voto ha scosso tutti: il governo, uscito sconfitto, le opposizioni finite nel caos politico nonostante la vittoria e i cittadini che si sono letteralmente spaccati in due di fronte al quesito europeista. Non bastasse tutto questo, sono migliaia coloro che si sono pentiti di aver votato a favore dell’uscita dalla UE e milioni i cittadini del Regno Unito che già solo due giorni dopo il voto avevano sottoscritto una petizione online per annullarlo. Gli sconquassi del mercato causati dalla Brexit hanno già bruciato migliaia di milioni di Euro, ma questi primi crolli delle borse sembrano i tuoni e i lampi di una burrasca che si avvicina in lontananza. Mentre le agenzie di rating cominciano a sventolare lo spettro di una nuova recessione per l’economia britannica, le posizioni dei governi regionali di Scozia e Irlanda del Nord, che hanno votato in massa per la permanenza nell’Unione Europea, minacciano l’indipendenza da Londra. Uno scenario che solo poche settimane fa sarebbe sembrato pura fantapolitica è dunque diventato realtà “grazie” al voto popolare.
A indurre a una riflessione circa il ricorso allo strumento referendario per questioni di questo tipo, ci pensa l’analisi un po’ più approfondita dei dati del voto inglese. Per prima cosa, quando si parla di maggioranza va precisato che nel caso della Brexit stiamo parlando di circa 1 milione 400 mila voti sugli oltre 33 milioni di cittadini che hanno votato: un dato che certifica un elettorato letteralmente spaccato in due. Questa stessa divisione si ritrova analizzando demograficamente il voto, con i giovani nettamente schierati per il remain e gli over 60 per il leave, dati simili a quelli relativi alla distribuzione geografica del voto che vede praticamente tutte le principali città del paese a favore della permanenza nella UE in contrapposizione alle aree rurali e a minore urbanizzazione che si sono schierate per l’uscita. Andando oltre nell’analisi dei dati si scopre, dulcis in fundo, che ad aver spinto per la Brexit sono gli elettori con la scolarizzazione più bassa.
Ricapitolando, ad aver deciso il futuro degli inglesi è stata la fascia di popolazione più anziana, con un livello culturale inferiore alla media nazionale e che non vive nelle grandi città, che sono peraltro anche il fulcro economico del Paese. Ecco perché il referendum indetto dal premier britannico Cameron è probabilmente il più grande autogol politico della storia contemporanea.
Amedeo Novelli