Si chiamava fotogiornalismo
L’edizione di quest’anno probabilmente finirà negli annali come quella del Troilogate, ossia del premio prima conferito, poi confermato, quindi ritirato al fotografo italiano Giovanni Troilo a cui va comunque la nostra solidarietà per la gogna mediatica cui è stato sottoposto e che probabilmente almeno per un po’ ne segnerà la carriera non proprio positivamente. A prescindere da alcune leggerezze ed errori commessi (e ammessi) da Giovanni, vorremmo usare questo spazio per una serie di considerazioni. La prima riguarda la giuria e il suo comportamento nella vicenda in questione che è stato a dir poco goffo. Non bastasse il fatto che sarebbe stato meglio per tutti accertarsi del rispetto delle regole molto prima del conferimento del premio, a lasciare basiti è che per arrivare al verdetto finale di esclusione siano state necessarie non una ma ben due inchieste. Questo balletto, durato qualche giorno, in termini di immagine è un vero e proprio scivolone che ha messo in evidenza una leggerezza talmente imbarazzante da renderne difficile la spiegazione, soprattutto se si considera che, almeno in teoria, il World Press Photo è il più importante premio fotogiornalistico al mondo.
In tutto questo caos c’è però anche un lato divertente e positivo, almeno per coloro che, come il sottoscritto, vorrebbero che il WPP restasse quello che è sempre stato, ossia un concorso nato per premiare le immagini e i servizi fotogiornalistici più importanti dell’anno e non un premio fotografico vero e proprio come per esempio i Sony World Photography Awards. Il caso Troilo, infatti, è scoppiato mentre ancora si sentiva l’eco dei festeggiamenti di coloro che avevano salutato le scelte della giuria di quest’anno, ivi compreso il lavoro di Giovanni, come una evidente apertura verso una fotografia più “delicata” e lontana dalle immagini (soprattutto di guerra) premiate in passato. Detto che chi scrive non ha una passione per il sangue e per le immagini violente a tutti i costi, quello che proprio non riusciamo a capire è il senso di questo tipo di discorsi che di fatto sembrano non tenere troppo conto dei principi su cui si basa il fotogiornalismo moderno, da Robert Capa in poi e che il World Press Photo fin dalla prima edizione ha fatto suoi. Secondo questa visione la missione del fotoreporter dovrebbe essere quella di raccontare in modo più imparziale e obiettivo possibile gli accadimenti locali o internazionali che documenta al solo scopo di fornire all’opinione pubblica un’informazione indipendente che, facendo leva sulla forza delle immagini e non delle parole, provi a raccontare i fatti così come realmente si verificano. Si tratta di un concetto chiave, che non ha nulla a che vedere con lo stile con cui ciascun reporter decide di raccontare le proprie storie e che secondo noi va difeso da chi continua a fare confusione tra fotografia e fotogiornalismo.
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