
Di Redazione Wj / foto di Filippo Ferraro
Viva Mexico
I premi fotografici, quelli veri e che non sono concepiti solo per speculazione economica, hanno l’onere, non solo di celebrare gli autori contemporanei, ma anche di promuovere la conoscenza e la cultura fotografica. In un momento così complesso come quello che stiamo vivendo, seppur in modalità “online”, il World Photography Awards 2021 continua ad assolvere a questo compito in modo intelligente, come testimoniato dall’attribuzione del prestigioso premio Outstanding Contribution to Photography a Graciela Iturbide, artista messicana considerata la più importate fotografa vivente dell’America Latina ma, ahimé spesso poco conosciuta a chi non si occupa di fotografia per professione.
Il riconoscimento ottenuto dunque, oltre che un premio più che meritato per quanto prodotto fino ad oggi, è per tutti, WJ compreso, l’occasione per far conoscere meglio la produzione fotografica di Graciela che, inevitabilmente, si intreccia con la vicenda umana di una donna che sceglierà la fotografia per superare il dramma della perdita di una figlia di sei anni e che saprà affermarsi in un contesto complesso come quello latinoamericano in tema di emancipazione femminile. Graciela ha innanzitutto il merito di interpretare fotograficamente il concetto messicano del “hay tiempo”, da cui sviluppa il suo linguaggio visivo, ossia quello di una paziente osservatrice, le cui immagini evocano il lirismo e la poesia della quotidianità.
Il lavoro di Graciela Iturbide esplora le complessità e le infinite contraddizioni del Messico, mettendo l’accento sulle disuguaglianze ed evidenziando le tensioni tra la realtà urbana moderna e quella rurale e indigena. Basta uno sguardo al suo lavoro per capire immediatamente come esso non abbia nulla a che vedere con la narrativa documentaristica: lo sguardo di Graciela trasmette una visione poetica quasi certamente figlia del suo percorso personale.
Alla fine degli anni Settanta Graciela ha un ruolo chiave nel movimento di fotografi latinoamericani che si uniscono per “riappropriarsi” dell’identità visiva dei loro Paesi dall’occhio esterno dei fotografi stranieri. Non si tratta di una forma di “sciovinismo” fotografico, quanto piuttosto della necessità di avere un approccio più autentico, come dimostrerà la pubblicazione del suo lavoro sulla comunità indigena Seri (Los que viven en la arena, 1981), accolta con favore da ricercatori e critici della fotografia. L’opera di Graciela Iturbide non pone l’accento sul carattere esotico dei soggetti, ma offre la prospettiva di un osservatore che desidera comprendere e prendere coscienza della propria cultura. Oggi, a distanza di anni, i lavori nati a contatto con le comunità Seri e Zapoteca a Juchitán de Zaragoza restano tra i più apprezzati della sua carriera, nonché un pezzo di “cultura” che dovrebbe sempre far parte del bagaglio di conoscenza di qualsiasi fotografo, professionista o appassionato.
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