
E’ con orgoglio che condividiamo l’invito al finissage della mostra attualmente ancora in corso presso le Gallerie d’Italia in Piazza della Scala a Milano e che vede protagonisti gli studenti della scuola di fotografia organizzata negli scorsi due anni in collaborazione con l’associazione RiScatti, la docenza dei fotografi di Witness Journal e il sostegno della Fondazione Cariplo. La scuola si rivolge a persone in difficoltà momentanea e in modo particolare con il requisito di senza fissa dimora.
A raccontarci la loro esperienza e che cosa significhi oggi, concretamente, vivere senza un tetto a Milano, saranno proprio loro, gli studenti e autori delle fotografie. Tutti al mare dunque, ma quello culturale, urbano. Vi aspettiamo numerosi dalle 19.30 in via Gabetti 15 per un brindisi con, a seguire, la proiezione del cortometraggio “13 storie dalla strada” e dibattito. Durante la serata sarà inoltre possibile acquistare alcuni degli scatti più rappresentativi. L’intero ricavato è destinato agli autori della mostra.

RiScatti, la scuola
“Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro… dalle tre io comincerò ad essere felice.” (Antoine de Saint-Exupéry)
Quel giorno, in aula, non erano i soliti studenti di fotografia ad aspettare ai banchi, impazienti di poter fermare il tempo in uno scatto; l’immagine è quella di Salvatore, Massimo B., Traoré, Amath e Nyang. Sedevano insieme agli altri, tutt’attorno ai tavoli che le volontarie di Riscatti avevano già unito per l’occorrenza, quasi a sembrare un giorno di festa fra amici di lunga data.
Il primo giorno di scuola cadeva il 9 gennaio, di martedì.
Da allora di martedì insieme ne abbiamo passati molti, fianco a fianco in un cammino costellato di dubbi, entusiasmi, incertezze, abbandoni e, soprattutto, Riscatti. Come quello di Salvatore Ulisse. Per Salvatore, abituato al suo cellulare, non è stato facile adattarsi all’uso di una macchina fotografica; ma proprio ad un passo dalla rinuncia, spronata da insegnanti e compagni, la sua voce è diventata più forte e ha trovato un’identità tutta sua.
“Fotografare mi ha fatto dimenticare le mie condizioni di vita complicate e il dramma di non avere una casa” dice Salvatore. Tra i suoi motivi ricorrenti, i riflessi: “Sostare davanti alle vetrine, agli specchi, ai finestrini di auto e tram è un modo per fermare frammenti di vita e mescolarli insieme con un po’ di fantasia”. Fotografare anche per rivedersi, ricordare di esserci, sapere di avere un volto e una storia. O ancora, fotografare per raccontare e raccontarsi. Per Nyang, da poco arrivato in Italia, la lingua era una vera e propria barriera, ma con la fotografia era diverso: finalmente poteva parlare con tutti di sé, del suo paese, delle sue giornate e del suo mondo.
E poi arriva il momento in cui non serve nemmeno quasi più scattare, per riscattarsi. Succede una mattina al Trotter, in una classe italiana sì, ma composta interamente da bimbi stranieri, di nazionalità diverse. Intimiditi, in piedi di fronte a loro, i fotografi esitano. Li invito a presentarsi e, in un istante, le lingue mutano forma; si ritrovano gli uni e gli altri insieme, inginocchiati spalla a spalla ad esplorare una cartina geografica appesa al muro. È Aquil che traduce dall’arabo in italiano per la maestra e per tutti quanti: Antonio, Dario, Massimo A., Paulos, Fulvio e Fedele; le loro Sony a6000 finiscono al collo dei piccoli e i ruoli si invertono.
“Idee bambine, pensieri bambini” è uno dei 13 progetti che abbiamo documentato per la Fondazione Cariplo, in un caleidoscopio di esperienze e opportunità davvero molto speciali. Certo il compito non era di facile esecuzione per un gruppo di fotografi alle prime armi e l’obiettivo sulla carta era ambizioso, eppure in molti hanno saputo accogliere la sfida con interesse e curiosità, senza mai tirarsi indietro.
Nemmeno i trentacinque gradi all’ombra delle due del pomeriggio di un ventisei luglio rovente sono riusciti a sconfiggere i nostri, le fronti imperlate di sudore e gli inseparabili indumenti multistrato indosso. Dopo aver speso l’intera mattinata lungo i corridoi della facoltà di scienze agrarie e alimentari per documentare lo sviluppo del miracoloso Nanosak, eccoli lì a cercare di inquadrare la città invisibile del MAUA, il Museo di Arte Urbana Aumentata. È stato allora che il confine fra realtà e allucinazione ha cominciato pericolosamente ad assottigliarsi e una lucertola gigante ha preso a roteare all’infinito nell’eterno tentativo di afferrarsi la coda. Fotografare l’invisibile: fatto.
Peccato non averlo avuto come superpotere, l’invisibilità. Specialmente negli spazi interni, più costretti, quando la vera vittoria stava nel ricavarsi un angolino segreto da dove fosse possibile fotografare indisturbati. La convivenza è sempre un tema fisicamente difficile per tutti, anche per i fotografi. Sin dalla primissima uscita nelle case in recupero di via Giambellino 143, la tendenza all’accumulo del gruppo si è rivelata limitante e potenziale fonte di scontro. È facendo un passo di lato o all’indietro, solo spostando lo sguardo che è possibile accorgersi di dove sta l’altro da me; ed è solo vedendolo che ci si accorge che in quel punto ci siamo passati entrambi e che, in fondo, da sempre condividiamo uno spazio che è già identico in partenza.
Non sarebbe stata altrimenti la stessa, dentro agli occhi, la commozione silenziosa di fronte alla prospettiva di un appartamento tutto per sé, che abbiamo visto concretizzarsi per alcune famiglie in difficoltà grazie al progetto QuBì, Oltre il cibo. In definitiva non ci è voluto molto affinché il gruppo si sparpagliasse ad esplorare i bilocali dislocati su vari livelli, sottolineandone la bellezza e testando la sensazione del panorama dai piani alti.
Vicinanza e immedesimazione sono fra le emozioni più ricorrenti negli incontri, dallo stupore incantato per gli acrobati sospesi del circo contemporaneo, all’ammirazione per la forza dei giovani Ramy e Kalhil, che della boxe hanno fatto il riscatto delle loro vite.
La reazione più inaspettata rimane però forse l’intensa partecipazione all’argomento della Notte dei ricercatori: l’applicazione di uno stent per impedire la Restenosi. Uscita preferita in assoluto da Massimo A., durante la spiegazione tecnica dei due giovani scienziati non si è sentita una zanzara volare, nonostante la location, il Parco Indro Montanelli. Molte sono state le domande su uno stile di vita sano da dover condurre per il futuro; certo certo niente fumo, pochissimi alcolici…e poi?
Forse, a modo suo, ogni fotografo è per definizione un senza fissa dimora, perlomeno dentro di sé. Forse alla fine il riscatto lo cerchiamo in ogni immagine che scattiamo, per portarla con noi per sempre. E quando non ci riusciamo, perché non ne abbiamo la possibilità o arriviamo, come spesso capita, troppo tardi rispetto al mondo che scorre ad un passo diverso dal nostro, sentiamo di aver perso qualcosa di importante. Per fortuna però non siamo soli e quella foto invece esiste, perché qualcuno l’ha scattata anche per noi.
Matilde Castagna / Witness Journal