Chi è Giulio Di Meo?
Mi occupo di reportage e sono un fotografo abbastanza atipico: porto avanti i miei progetti in modo indipendente, finanziandomi attraverso l’attività didattica che svolgo. Non ho mai lavorato per agenzie, giornali o riviste, non partecipo ai grandi concorsi.
Quando è iniziata la tua avventura fotografica?
Ho cominciato a fotografare da adolescente, grazie a mio padre, grande appassionato.
Poi pian piano il tentativo di vivere di fotografia, quindi l’esperienza tra foto di studio, cerimonie, ecc, che mi ha presto chiarito che quello non era il mio mondo. Ho iniziato allora a provare con la didattica, con corsi e workshop. È stata la strada giusta perché mi permette di trasmettere ad altri la mia passione e, allo steso tempo, di portare avanti i miei progetti.
Che cosa significa per te il reportage sociale?
Il reportage è la mia vita. Quando ho iniziato a fare workshop amavo accompagnare la parola reportage con l’aggettivo sociale, per marcare la differenza della mia idea di fotografia rispetto a quella comunemente diffusa. Da qualche anno quell’aggettivo lo uso molto meno. Oggi tutti parlano di fotografia sociale, allora ero uno dei pochi, oggi mi sembra inflazionato.
Credo nella fotografia come strumento per informare e denunciare, come mezzo di cambiamento personale, sociale e politico. Sono convinto che la fotografia possa in qualche modo contribuire a combattere situazioni di piccole e grandi ingiustizie, per fare questo però è necessario cambiare strada. Sono anni che sostengo che la fotografia non può più limitarsi al solo obiettivo del raccontare e denunciare, ma deve agire concretamente verso le realtà documentate. Inoltre sostengo una fotografia non urlata, capace di raccontare con semplicità, rispetto e dignità. E’ questa la mia fotografia, quella che amo e che mi piace definire sociale.
Parli di rispetto e dignità, secondo te c’è un problema di etica?
Non voglio parlare di etica, ognuno segue la sua strada e i suoi principi.
Però certo se guardo la maggior parte delle immagini premiate, anche quest’anno, al WPP, cosa vedo? Guerra, sangue, morte….. Credo che l’uso massiccio di immagini violente, più che indignare ha contribuito a “normalizzare” le tragedie. Ormai, più che cambiare le sorti di una guerra, le immagini dei suoi orrori sono soprattutto garanzia di grandi premi internazionali. È vero, questo è il nostro mondo, ma oltre alle grandi tragedie ci sono altre mille piccole ingiustizie che ogni giorno lo pervadono. Non dovremmo limitarci ad indagarne solo una parte.
Secondo te è possibile cambiare?
Certo, basta non partecipare ai concorsi….
Scherzi a parte, penso sia possibile, basta semplicemente svolgere questo mestiere con professionalità e rispetto. Una delle nove regole del codice etico della National Press Photographers Association, fondata nel 1947 e punto di riferimento per i fotogiornalisti di tutto il mondo, dice: “Trattate ogni soggetto con rispetto e dignità. Abbiate particolare considerazione per i soggetti più vulnerabili e abbiate compassione per le vittime di crimini o tragedie”. Capito? Quanti fotografi conoscono e rispettano questo semplice insegnamento?
Ci parli del libro Pig Iron?
Pig Iron è una pubblicazione fotografica, con testi di Dario Bossi e Francesco Gesualdi, sulle gravi ingiustizie sociali e ambientali commesse dalla multinazionale Vale negli stati brasiliani del Pará e del Maranhão, tra i più poveri del Paese. Le foto del libro raccontano queste storie per non lasciare l’ultima parola ad un’economia di sfruttamento. Non ho cercato né il dramma né il dolore, ma la speranza, la resistenza e la comunità. Tre ricchezze che non si calcolano con i numeri e che la gente brasiliana non ha ancora perso, malgrado tutto.
Cosa significa Pig Iron?
Pig Iron significa il ferro dei porci, perché produrlo inquina e questo non è degno dei “paesi sviluppati”, dove arriva tutto pulito. Vale sta guadagnando cifre esorbitanti grazie all’esportazione di più di 100 milioni di tonnellate di ferro all’anno. Questa emorragia nasconde impatti violenti sulle comunità e i territori degli stati brasiliani del Pará e del Maranhão. Le macchie di questo sviluppo non si possono cancellare: devastazione delle foreste, inquinamento e lavoro schiavo provocati dal ciclo del carbone per la siderurgia, che è la prima lavorazione grezza del ferro. Resta la povertà, inerte e senza apparente futuro in un’economia di enclave che permette ai treni il trasporto di un valore grezzo di 60 milioni di dollari al giorno, a fianco di baracche in cui sopravvivono persone con meno di 300 dollari al mese. È il prezzo del ferro, che non corrisponde a logiche commerciali ma si carica di storie e di ipoteche sul futuro di molte persone e territori.
Come nasce il progetto e il libro Pig Iron?
Pig Iron è un progetto nato nel 2008 grazie alla collaborazione con l’Ong italiana Arcs, al Movimento dei Sem Terra e alla rete Justiça nos Trilhos (Sui Binari della Giustizia), nata dalle attività dei missionari in Brasile che tentano di “fare rete” per organizzare, proteggere e potenziare le comunità vittime delle prepotenze di questa multinazionale.
Il libro è il risultato di un lungo lavoro; di intensi momenti vissuti con i contadini brasiliani, girando e vivendo le loro comunità e accampamenti, condividendo le loro storie ed il loro quotidiano.
Pig Iron nasce dalla scommessa di dimostrare che un’altra fotografia è possibile.
Una fotografia che racconta, senza urlare o sconvolgere. Una fotografia accessibile a tutti: attraverso l’autoproduzione siamo riusciti a garantire un prezzo a portata di tutti.
Una fotografia concreta: questo progetto editoriale non vuole limitarsi a raccontare attraverso le immagini, le storie di queste persone, ma vuole anche essere un veicolo attraverso cui realizzare qualcosa di concreto e tangibile per loro. Per questo parte dei ricavati della pubblicazione saranno destinati ad un progetto per la realizzazione di un centro di ricerca e comunicazione teatrale gestito da giovani di Açailândia, nel nordest del Brasile.
Dove si può acquistare il libro Pig Iron?
Il libro può essere acquistato contattandomi direttamente via mail (info@giuliodimeo.it), in alcune librerie indipendenti e sulla piattaforma Produzioni dal basso. Per chi vuole avere maggiori informazioni abbiamo realizzato un sito dedicato: www.pigiron.it