Una rosa a Sarajevo
WJ #115Nel corso della guerra Serbo-Bosniaca (1992-1995) lo stupro è stato usato come un’arma di pulizia etnica; tra le donne che non venivano uccise, molte furono liberate solo quando la gravidanza era troppo avanzata perché potessero abortire: avrebbero così dato alla luce figli serbi.
Sono oltre 20.000 le donne bosniache sopravvissute alla violenza sessuale subita che oggi, a 25 anni dalla fine della guerra, si vedono ancora negare giustizia.
Hassia, all’età di 18 anni, è stata rapita da un gruppo di soldati serbi; il padre ed il fratello maggiore uccisi, lei imprigionata, picchiata e stuprata per due lunghi mesi poi la liberazione, e la decisione di abortire. Hassija è stata la prima donna bosniaca a denunciare.
Sopravvissuta si, ma ferita a morte nell’anima, emarginata per ciò che suo malgrado ha dovuto subire.
Con grande coraggio ha tuttavia denunciato i suoi aguzzini affrontando un doloroso processo che ha ulteriormente segnato il suo difficile percorso di vita, la sua testimonianza, insieme a molte altre, è stata scritta nel libro “Molila sam ih da me ubiju” (Li pregavo di uccidermi).
Le conseguenze psicologiche sono state pesanti: depressione, sbalzi di umore, difficoltà a relazionarsi con gli uomini. Comunque si è presa cura della famiglia, della madre, dei fratelli piccoli combattendo per ricostruire una nuova vita attorno a sé.
Sono trascorsi 25 anni dalla fine della guerra ed ancora oggi vittime e carnefici convivono le une accanto agli altri: i responsabili degli stupri continuano a sottrarsi alle indagini e alla giustizia, alcuni occupano posizioni di potere e molti vivono nelle stesse comunità delle loro vittime. Solo pochi colpevoli sono stati assicurati alla giustizia attraverso i tribunali internazionali e nazionali, le donne e le ragazze stuprate continuano ad essere vittime di una società che le ha dimenticate.
Le “rose di Sarajevo” sono i crateri lasciati sull’asfalto dai mortai dei soldati serbi che i sopravvissuti hanno voluto conservare a presidio della memoria.