The Cut

WJ#152

Dopo il divieto per le donne dell’Afghanistan di frequentare le scuole superiori e l’università, di frequentare le aree pubbliche ricreative, di lavorare nelle NGO, il divieto di lavorare nei saloni di bellezza è stato un ulteriore colpo alla loro libertà.

Ecco i ritratti di alcune parrucchiere ed estetiste afghane che hanno un messaggio per il mondo.

Possono sembrare piccole storie quelle delle parrucchiere e delle estetiste dell’Afghanistan alle quali è stato impedito di lavorare dopo il decreto di chiusura dei saloni di bellezza emesso dall’Emiro dei Talebani nel luglio del 2023. Piccole rispetto al tema enorme del divieto di istruzione secondaria per tutte le donne, che ha indignato il mondo intero.

Eppure entrare nelle case, nelle stanze delle parrucchiere e delle estetiste rimaste senza lavoro, cosa che ho potuto fare solo in quanto donna, è stata per me la straordinaria e unica occasione di toccare con mano com’è la vita delle donne in Afghanistan.

Sfidando le limitazioni poste all’attività giornalistica, e il divieto stabilito per decreto di fotografare gli esseri viventi, ho incontrato con discrezione in varie zone dell’Afghanistan queste donne.

Le ho ritratte nelle loro case, adibite talvolta a veri e propri saloni clandestini. Sono artigiane e professioniste che hanno dovuto chiudere i loro saloni ma non potendo rinunciare al loro reddito, spesso l’unico della famiglia, hanno comunque continuato a lavorare di nascosto.

Nel Paese più povero dell’Asia, dove la disoccupazione è dilagante e gli uomini fanno fatica a trovare un lavoro, una fonte di reddito per le famiglie era proprio quella garantita dalle donne che lavoravano nei saloni di bellezza.

Ho raccontato le loro storie, perché ritenevo che fossero degne di essere raccontate. Sono piccole storie, che parlano però del tema della privazione delle libertà fondamentali.

Ho chiesto a ciascuna di loro di scrivere un messaggio, qualsiasi cosa avessero voluto scrivere, su un aquilone. Ho scelto l’aquilone perché è uno dei simboli dell’Afghanistan, è un oggetto che librandosi nell’aria si presta a simboleggiare un anelito di libertà, e non ultimo non può essere fatto volare dalle donne. Alcuni aquiloni non riportano alcun messaggio, sono quelli delle donne che non sanno scrivere.

I messaggi scritti erano per lo più semplici e diretti. Quello che più mi ha colpito diceva: “Bramo il giorno in cui tutte queste porte chiuse saranno aperte.

Il reportage

Scheda autore

Silvia Alessi

Nata a Bergamo, Italia, nel 1975, lavoro come parrucchiera e truccatrice da quando ho 17 anni. Nel corso degli anni ho creato grazie alla fotografia progetti artistici facendo incontrare persone ed esperienze diverse nell’unico spazio delle mie visioni, talvolta anche disturbanti. Tra i miei lavori, pubblicati su diverse riviste ed esposti in varie gallerie: Maze of Metamorphosis (Giappone 2019), Skin Project (India, 2017). L’ultimo mio progetto, di cui quello sulle parrucchiere afghane fa parte, è sui capelli e sul loro significato artistico, psicologico, religioso e politico.

Fotocamera: NIKON Z62
Obiettivo: AFS-NIKKOR 24-70 mm

English version

The Cut

Photographs by Silvia Alessi

Text by Silvia Alessi and Roberto Tomelleri

Following the ban on Afghan women attending high school and university, accessing public recreational areas, and working in NGOs, the prohibition on working in beauty salons has dealt another blow to their freedom. Here are the portraits of some Afghan hairdressers and beauticians who have a message for the world.

The stories of the hairdressers and beauticians in Afghanistan, who were prohibited from working after the closure decree issued by the Taliban Emir in July 2023, might seem small, especially when contrasted with the enormous issue of banning secondary education for all women, which has outraged the entire world.

Yet, entering the homes and rooms of the hairdressers and beauticians left without work, an opportunity I had solely because I am a woman, allowed me to grasp what life is like for women in Afghanistan.

Despite the limitations imposed on journalistic activities and the decree banning the photographing of living beings, I discreetly met these women in various regions of Afghanistan.

I captured their portraits in their homes, sometimes transformed into underground salons. They are artisans and professionals who had to close their salons, but unable to give up their income— often the only one in the family—they continued to work in secret.

In the poorest country in Asia, where unemployment is rampant and men struggle to find work, a source of income for families was provided by women working in beauty salons.

I shared their stories because I believed they deserved to be told. These are small stories, yet they speak to the broader theme of deprivation of fundamental freedoms.

I asked each of them to write a message—anything they wished to convey—on a kite. I chose the kite because it is one of the symbols of Afghanistan; it rises into the air, symbolizing a yearning for freedom, and it cannot be flown by women. Some kites bear no message, belonging to illiterate women.

The written messages were mostly simple and direct. The one who struck me the most was: “I long for the day when all these closed doors will be open.