Six degrées sud
WJ #107Un ex fotografo professionista torna a scattare su quel tratto di costa africana da dove era partita la sua passione per i viaggi e le altre culture: ne esce un reportage sulla lenta scomparsa di tradizioni e stili di vita che durano da secoli.
Sei gradi sud è la latitudine dell’arcipelago di Zanzibar e l’esatto centro geografico della Costa Swahili che dalla Somalia meridionale si estende fino al Mozambico. Sviluppatasi a partire dal X secolo grazie agli scambi commerciali con il mondo arabo, la Persia, l’India e la Cina, essa definisce sia una realtà linguistica e culturale che fisica. Le antiche tradizioni marinare di questa regione, così come il legame molto forte che lega i suoi abitanti al mare, sono dunque inseparabili dalle sue tradizioni culturali e religiose, in particolare dall’Islam.
Per le comunità costiere dell’Africa orientale il futuro sembra essere oggi compromesso. In questa regione si constata in effetti un crollo drammatico delle riserve ittiche, così come modificazioni ambientali dovute al cambiamento climatico. È dunque molto probabile che nei prossimi decenni questi uomini e queste donne siano costrette a lasciare la loro costa per andare tra le bidonville delle grandi città, tralasciando così le loro tradizioni millenarie.
Le minacce che pesano su queste popolazioni, sui loro gesti e sulle loro abilità trasformano un reportage fotografico in un vero e proprio lavoro di memoria storica e privata.
“Più di trenta anni fa sono andato in Somalia per lavorare” racconta Nicolet. “Mi sono subito innamorato di questa costa ribelle, vuota e selvaggia, costellata qua e là da antiche città fatte di blocchi di corallo imbiancati a calce. Queste case assonnate, alle quali solo pochi pescatori di squali sembravano ancora aggrapparsi, avevano tuttavia conosciuto la loro ora di gloria alcuni secoli prima, quando i dhow dall’Arabia arrivavano qui seguendo il ritmo dei monsoni. Caricati fino all’orlo di uomini e datteri, presto sarebbero ripartiti con incenso, avorio e schiavi. Fu anche in queste zone che Rimbaud ed Henry de Monfreid, gli eroi della mia giovinezza, erano vissuti. Era molto tempo fa, eppure quello che ricordo molto bene, che mi ha fatto un’impressione eterna, è il cielo: immenso, vuoto, ma che sembra occupare tutto lo spazio. E anche il mare ricco, così onnipresente, con il suo borbottio permanente dalla barriera corallina in lontananza, e la sua frangia bianca nata dall’incessante frangersi delle onde. Vuoto, silenzio, ombra e luce, dolcezza, siccità, anche violenza: queste erano le parole talvolta contraddittorie che per me definivano questo luogo straordinario.”
“Non molto tempo fa” – prosegue il fotografo – “volevo ritrovare tutto questo e provare a trascrivere l’essenza di queste parole in immagini. Dotato di un unico obiettivo da 35 mm, sono tornato in alcuni dei luoghi che avevo visitato per vedere cosa era rimasto e per cercare di capire meglio come queste popolazioni, che da più di mille anni hanno occupato queste coste uniche, vivono oggi. Questa è una visione personale, malinconica, a volte contemplativa di un mondo che mi è caro ma che, come ho ora capito, sta rapidamente scomparendo.”