Rwandan Girls‘n Boys
WJ #120“L’uomo non può prendere due sentieri alla volta” (proverbio rwandese)
Al termine dei 100 giorni di carneficine, avvenute durante la guerra civile del 1994, il Rwanda registrò più di 800.000 vittime civili. Laddove per secoli nel Paese erano esistite solo differenze socio economiche ed erano stati frequenti i matrimoni misti, il governo coloniale del Belgio creò, a partire dal 1926, forti divisioni tra la popolazione di etnia Hutu e quella Tutsi, i primi contadini e i secondi allevatori. Introdussero queste divisioni attraverso la categorizzazione dell’aspetto: gli Hutu erano ritenuti perlopiù di statura media mentre i Tutsi erano associati a una statura alta e ai lineamenti più simili a quelli europei. Da allora l’irrigidimento creatosi tra i gruppi non rese più possibile il cambio di etnia. L’odio alimentato per anni innescò il genocidio con cui la minoranza Tutsi venne sistematicamente massacrata. A porre fine al massacro fu l’FPR (Fronte Patriottico Ruandese) capitanato dall’attuale presidente del Rwanda, Paul Kagame, che già dal 1990 aveva intrapreso un’opposizione armata nei confronti del governo Hutu. Nella metà di luglio dello stesso anno la capitale Kigali passò definitivamente sotto il controllo dell’FPR e da lì a poco venne decretata la fine del conflitto.
Negli ultimi giorni della guerra, in un orfanotrofio di Rilima, si trovava un gruppo di 171 bambini tenuto lontano dai massacri da una sola rete di recinzione e dai volontari dell’organizzazione non governativa Museke. Grazie all’intervento di una truppa dei caschi blu dell’ONU e della Croce Rossa Italiana i bambini vennero messi in salvo e trasferiti in Italia. Finita la guerra, la maggioranza di questi minori rientrò nel proprio Paese mentre per 40 di loro si aprirono le pratiche di adozione da parte di alcune famiglie italiane. Pratiche che si concluderanno definitivamente nel 1999. Nel frattempo il governo di Kigali contattò la Farnesina per avere spiegazioni riguardo al mancato rientro dei 40 bambini: da quel momento iniziò un vero braccio di ferro tra lo stato rwandese, che rivendicava i suoi figli, e l’organizzazione italiana che si era occupata delle adozioni. La vicenda si è poi risolta con la permanenza definitiva in Italia dei piccoli presso le famiglie adottanti.
Oggi, 25 anni dopo il genocidio, quei bambini diventati adulti vogliono essere un’occasione per ribadire il diritto di qualsiasi essere umano a spostarsi, fuggire da zone di conflitto o da zone dove è difficile avere le minime garanzie di sopravvivenza. Questi ragazzi, con le loro vite le loro storie e i loro corpi, testimoniano la necessità dei popoli nell’essere liberi di migrare. Giacinta, laureanda in cinema ed arti drammatiche; Roberto, istruttore di parkour; Cesare, laureato in giurisprudenza alla Bocconi; Dominique, candidato alle olimpiadi di Tokio 2021 nei 100 metri ostacoli con la maglia del Rwanda. Tutti loro raccontano di identità che non sono più necessariamente legate a confini e alle culture di nascita, ma si modellano sulla struttura sociale di cui fanno parte. Ognuno naturalmente conserva ricordi ed ha posizioni diverse su quegli eventi che hanno cambiato definitivamente la loro vita. Vite differenti, complesse, sfaccettate: alcuni sono ancora dentro un conflitto, altri l’hanno risolto; alcuni hanno la percezione dello sradicamento, altri hanno trovato una riconciliazione. Qualcuno, infine, ha saputo anche intuire e cogliere un’opportunità inaspettata.