My selves

WJ #124

“My selves” è un progetto fotografico sulla percezione, esplorazione e rappresentazione del sé, o meglio “dei” sé, da parte di ragazze e donne nel mondo.

Ogni gruppo sociale, per grande o piccolo che sia, possiede un complesso di valori, credenze, abitudini e si dota di un sistema di norme più o meno accettate e condivise che regolano il vivere insieme e costituiscono le costruzioni culturali proprie a una società. Trasmesse di generazione in generazione, le norme culturali si radicano nella vita di un popolo inducendo (e a volte imponendo) comportamenti sociali specifici. Ma in quale misura questi comportamenti appresi possono entrare in conflitto con le disposizioni affettive, i desideri, le motivazioni personali dei singoli individui?

Attraverso il mirino della macchina fotografica, Adele Dalla Pozza interroga i vissuti e le percezioni di alcune donne di Giordania e India, donne che nel (cor)rispondere alle norme socioculturali del loro paese, si trovano a dover incorporare diversi “sé”, a volte contrastanti tra loro, in tensione tra quello che vogliono e quello che devono essere, come racconta Hala “È così difficile essere la persona che vorresti davvero essere.”

Con il suo progetto, tuttora in corso, la fotografa si propone di andare oltre il ritratto documentaristico per cercare di dar voce ai suoi soggetti: facendole partecipare in prima persona alla composizione dell’immagine, Adele chiede a queste donne una rappresentazione visuale dei loro diversi “selves”. Esse trovano in questo modo il tempo e lo spazio per indagare il loro sé, per porsi domande scomode e talvolta dolorose sulle persone che sono e che vogliono essere, per trovare nuove risposte.

Scegliendo questa modalità di lavoro, Adele e i suoi soggetti diventano co-costruttori di immagini che vogliono simbolizzare le difficoltà dell’essere donne all’interno della loro società. In realtà, nei loro volti troviamo le donne del mondo, oltre ogni appartenenza e confine nazionale. Ci ricordano che al di là di geografie, religioni, situazioni politiche, sistemi economici, questi vissuti contraddittori appartengono a tutte noi.

Le persone ritratte sono principalmente provenienti da classi sociali privilegiate, sia in Giordania che in India, scelta deliberata per mostrare come le difficoltà con cui esse si trovano a fare i conti ordinariamente non sono esclusive alla parte della popolazione considerata più svantaggiata.

Le loro storie sono quelle di donne e ragazze le cui ambizioni vertono verso una parità di genere che si rivela essere ancora fragile e, se pur a volte difesa nella Costituzione, troppo spesso invisibile nella quotidianità.

Il reportage

Didascalie

1- DANI (Amman, Jordan)

” In Giordania, per moltissime donne la casa è il luogo a cui appartengono e dal quale non dovrebbero allontanarsi, come se fossero parte dell’arredamento domestico. Sono fortunata ad avere genitori con una mente aperta. L’Hijab non mi è mai stato imposto ed ho deciso io stessa d’indossarlo con uno stile più vintage, come le donne lo indossavano un tempo. Mi piace moltissimo ed i miei genitori approvano la mia scelta.”

“Mi chiamo Dani, ho 22 anni e sono una studentessa di architettura. Mi piace pitturare e fare foto.”

 

2- DANI, HAYA, LARA, RASHA (Amman, Jordan)

“Crescendo ci rendiamo conto che, in quanto donne, abbiamo un potere molto limitato sul nostro futuro. Limitante non è solamente la società, ma anche la nostra famiglia che ci dice come comportarci, vestirci, che tipo di studi o lavoro dobbiamo accettare. È come se i nostri genitori stessero tessendo il nostro futuro sul quale non abbiamo alcuna possibilità di cambiamento, come un allevamento intensivo di animali che stanno solamente aspettando di essere ammazzati.”

(Da sinistra) “Mi chiamo Dani, ho 22 anni e studio architettura, mi piace pitturare e fotografare.”

“Mi chiamo Haya, ho 23 anni, mi sono da poco laureata ed ora lavoro come assistente di volo. Mi piace molto perché mi permette di viaggiare in posti dove altrimenti non potrei andare con il mio passaporto giordano.”

“Mi chiamo Lara, ho 23 anni, sto studiando all’università e mi piace il fashion design.”

“Mi chiamo Rasha, ho 33 anni e lavoro come fashion designer nello studio che ho aperto ad Amman, Giordania.”

 

3- NOUR (Amman, Jordan)

“Sono una modella. Mi chiedono sempre di comportarmi e vestirmi in una certa maniera. Questo è ciò che le persone che lavorano in questo settore vogliono da te. Ho molte lentiggini sul mio viso e mi piacciono tanto, ma quando arrivo al lavoro è la prima cosa che nascondono, perché non rientrano nei loro canoni di bellezza. Le loro aspettative mi paralizzano.”

“Mi chiamo Nour, ho 25 anni e lavoro come modella freelance. Nel mio tempo libero adoro creare contenuti per YouTube.”

 

4- PADMA (Chennai, Tamil Nadu, India)

“Andare a vivere da sola è stata una decisione difficile. È successo nella stessa settimana del caso di stupro ad Hyderabad (2019), dove quattro uomini hanno violentemente stuprato e ucciso una dottoressa veterinaria di 26 anni. Mi ha ricordata di quanto l’India non sia sicura per le donne, anche quando seguono le regole indossando vestiti “decenti”, non avendo amici maschi, vivendo con la loro famiglia, non fumando/bevendo, uscendo fino a tardi, ecc. Non c’è mai garanzia di sicurezza. Non conosco una sola donna che non sia stata importunata o molestata. Durante le settimane successive a quell’episodio la vita quotidiana è diventata più difficile. Rientravo a casa prima del solito. Sono diventata più rigida con il mio abbigliamento: prendevo qualcosa dall’armadio per poi rimetterlo via e scegliere qualcosa di più coprente o tradizionale.”

“Mi chiamo Padma e sono una donna eterosessuale appartenente Savarna*. Se è pauroso per me essere una donna, non riesco nemmeno ad immaginare quanto pericoloso questo paese possa essere per le persone senza il mio privilegio.”

*Nota: Le comunità che appartengono ad uno di questi quattro “Varna”/caste come Bramina, Kshatriya, Vaishya e Sudra sono chiamate”Savarna”.

 

5- RASHA (Amman, Jordan)

“In Giordania se sei una donna non puoi chiedere il divorzio a meno che non sia la tua famiglia che lo faccia per te. Anche se finisci in un triste matrimonio combinato non hai alcun potere di cambiare la situazione. In questa foto sto indossando il mio vestito da sposa, una catena ed un mazzo di fiori.”

“Mi chiamo Rasha, ho 33 anni e lavoro come fashion designer nello studio che ho aperto ad Amman, Giordania.”

 

6- SRIVIDYA (Chennai, Tamil Nadu, India)

“Penso di identificarmi maggiormente in situazioni di disagio che di comodità. È durante situazioni scomode che il mio genere diventa prominente, specialmente in luoghi pubblici quando vengo continuamente fissata. Cerco di far finta di non accorgermene e continuare a fare quello che sto facendo. Ma quella confidenza a volte sembra delirante. Da bambina quello che mi spaventava di più era perdermi. Ora, invece, preferirei passare inosservata in una folla.”

“Mi chiamo Srividya, ho 21 anni e studio Scienza Umane alla IIT Madras. Non lo so quello che voglio fare, ma non ho fretta di prendere decisioni.”

 

7- LINA (Amman, Jordan)

“Sono una donna forte e schietta, per questo sono percepita come una minaccia, perché decostruisco lo stereotipo della donna araba musulmana pacata e controllabile. Ma ad un lupo non interessa l’opinione delle pecore e delle capre. Sono minacciosa per loro perché oso essere diversa. Preferirei vivere da lupo, che morire da pecora.”

“Mi chiamo Lina Abojaradeh, un’artista giordano-palestinese che ha spento gli ultimi dieci anni utilizzando l’arte come mezzo per raccontare la storia della Palestina e del Medio Oriente, utilizzando video, fumetti controversi e graffiti. Il mio lavoro parla dell’importanza della resistenza attraverso l’arte ed è stato esibito in molti eventi in Giordania, Turchia, Tunisia, Irlanda, America e Argentina.”

 

8-KRIPALI (Chennai, Tamil Nadu, India)

”Le linee nere sulle mie braccia [nella foto] sono state disegnate con un eye-liner sulle cicatrici del mio autolesionismo che hanno plasmato la persona che sono ora. La mia era una tipica scuola ottusa del sud dell’India. Presto i ragazzini più grandi hanno iniziato a taggarmi come quella “facilmente disponibile” e a bullizzarmi. Questo mi ha influenzato mentalmente ed emotivamente. Per lenire il dolore ho iniziato a ferirmi fisicamente. Ora che ci penso mi rende così triste ma sono sicuramente diventata più forte.”

Mi chiamo Kripali ed ho 23 anni. Oltre ad essere una modella professionale, mi piace leggere e fotografare. Amo il Jazz e trascorro la maggior parte delle mie serate a guardare il cielo.”

 

9- KALABATI (Mysore, Karnataka, India)

“Anche se vivere da sola in India è comune nelle grandi città, lo è solo idealmente. Le persone non riescono ancora ad accettarlo: “Cosa farà tutto il giorno? Chi va a trovarla a casa?”. Sono per natura una persona molto amichevole ma devo costantemente negoziare con gli uomini per le cose più semplici e questo mi fa sentire un cactus. Anche quando sono a casa da sola, nel mio spazio più intimo, ci vuole così tanto per togliere quella buccia ed essere nuovamente un fiore.”

“Mi chiama Kalabati ed ho 32 anni. Lavoro come designer grafica e tessile per pagare le bollette. A parte questo sono interessata agli umani, ai loro problemi, alla loro creatività nel risolvere i problemi o complicarli ulteriormente.”

 

10- SHEEBA (Thrissur, Kerala, India)

“Ciò che mi rende una donna forte è la mia dolcezza e sensibilità nei confronti di tutte le creature viventi. So che niente mi fermerà. Ma alcune volte mi sento ancora una bambina che ha voglia di rincorrere le farfalle.”

“Mi chiamo Sheeba e sono la fondatrice di Solace, una ONG che supporta bambini/e malati/e a lungo termine. Quando a mia figlia è stata diagnosticata la leucemia e ospedalizzata, sono diventata consapevole della sofferenza di quei genitori che non potevano permettersi di pagare i trattamenti medici per il loro figli. Ho trovato una soluzione attraverso Solace, dove offriamo supporto medico a oltre duemila bambini nella regione del Kerala, nel sud-ovest dell’India.”

 

11- HALA (Amman, Jordan)

“E’ da tutta la mia vita che provo ad essere all’altezza delle aspettative della gente, ma mi sento come se non riuscirò mai ad essere abbastanza per loro. Provo, provo ancora, e fallisco. Vogliono sempre di più da me. In Giordania è difficile scappare dai giudizi della gente, sono sempre pronti a fare dei commenti su come ti vesti, su cosa studi o cosa non studi. È così difficile essere la persona che vorresti davvero essere.”

“Mi chiamo Hala, ho 25 anni, sono nata e cresciuta ad Amman dove ora studio sistemi informativi di gestione. Uno dei miei scopi è di aprire un’associazione per ragazze e donne in Giordania, aiutandole nel loro percorso di ricerca personale, nonostante le costrizioni dettate da famiglia e società.”

 

12 – MAYA (Thrissur, Kerala, India)

“In Kerala, in quanto appartenenti alle comunità Dalit (i cosiddetti “fuori casta”/Dalit) ci sono sempre stati negati i diritti sulle nostre terre e sulle nostre risorse. La mia battaglia non è solamente di essere una donna, ma una donna Dalit.”

Mi chiamo Maya, sono una scrittrice ed una studentessa PhD. Ho recentemente vinto la Bluestone Rising Scholar Award dalla Brandies Univeristy, USA. È la prima volta che una donna Dalit vince un premio internazionale di questo genere.”

 

13- ROSHNI (Chennai, Tamil Nadu, India)

“Crescendo in India mi sono sempre sentita rifiutata dalla mia comunità in quanto diversa dal tipo di donne dalli quali ero circondata: mia madre, le mie cugine, amiche, compagne di scuola. Una tipa strana. Ho sempre pensato che le altre ragazze fossero più belle, graziose, gentili e affascinanti e attraenti. Questo è anche quello che la TV mi ha trasmesso. Non mi sentivo mai abbastanza. Ero troppo chiacchierona, goffa, inadatta. Potevo fare finta di essere diversa, ma mi stufavo facilmente di tutta quella commedia. Da adolescente non ho mai avuto la forza mentale per recitare accuratamente. Mi domando se altre ragazze sentivano lo stesso crescendo. Mi domando se stanno ancora recitando. Non nascondo che lo sto tuttora facendo.”

“Mi chiamo Roshni, e sono una donna Savarna privilegiata che vive in città. Scrivo, recito e fotografo. Cerco di capire le esperienze di quelle persone che ricadono al di fuori di quella narrativa sociopolitica miope all’interno della quale sono cresciuta.”

Scheda autore

Adele Dalla Pozza

My selves

Adele Dalla Pozza ha passato gli ultimi dieci anni a viaggiare, lavorare e studiare in diversi paesi quali Francia, Inghilterra, Australia, Danimarca, India, Giordania, Turchia, ecc. Laureata in antropologia all’Università di Bologna, è successivamente accettata ad un Master di Ricerca in Scienze Sociali presso l’Università di Amsterdam, ma presto scopre che l’accademia non è la sua strada, convinta che l’antropologia non possa essere confinata all’interno dell’ambiente universitario. Decide dunque di essere sul terreno e unire antropologia e fotografia, una delle sue grandi passioni sin dall’adolescenza, per veicolare i suoi messaggi grazie alla forza delle immagini. Nelle sue ricerche, si interessa principalmente alla costruzione sociale dei corpi, la malattia mentale, l’attivismo di genere, le migrazioni, la permacultura e lo yoga. L’approccio fotografico di Adele è principalmente partecipativo, riflesso della sua formazione accademica: ama costruire insieme ai suoi soggetti le immagini e il messaggio che incorporano. Attualmente e temporaneamente è basata a Berlino.

Fotocamera: Fujifilm Xt20
Obiettivo: 23 mm

English version

My Selves

Photography by Adele Della Pozza. Story edited by Laura Pezzenati

​”My selves” is an on-going visual project on the perception, exploration and representation of the self, the “selves”, from women in different parts of the world (Jordan and India so far), where historically rooted socio-cultural norms still their wishes and impose specific behaviors because of their gender. There is too often a gap between who they need to be and who they would like to be.

Through an exploration of their self, the subjects find the space to investigate and ask themselves uncomfortable and sometimes painful questions about the people they are and they want to be, to find new answers. The final goal of the project is to show images that are mutually thought of and created from the scratch, which shed light on the difficulty of being women in each specific country, but that also aim to go beyond national borders, beyond geographies, religions, political situations, economic systems: these contraddictions are global.

The photos portray stories of women whose ambitions focus on gender equality: an equality that cannot be followed only within the Constitution but also in the (too often ignored) everyday life.