Makmour, l’equilibio instabile

WJ #114

Quel che importa non è la nostra vittoria, bensì la nostra resistenza.

(François Mauriac)

«Perché dovrei desiderare l’Europa? I miei genitori mi hanno raccontato che siamo nati scappando, affamati, mentre ci bombardavano dall’alto, ma siamo sopravvissuti e adesso lottiamo per il nostro futuro. Quella che voi chiamate civilizzazione è qui, ed è la più grande».

Makhmur è un villaggio di 13.000 persone nel Kurdistan iracheno, quasi un’enclave in territorio “ostile”. Qui si dice sia nato il modello del confederalismo democratico curdo. Una comunità coesa e resistente in cui le donne e i giovani sono protagonisti. Da luglio 2019 la popolazione è soggetta ad un embargo lavorativo, di beni alimentari e medicinali; la metà degli abitanti ha perso il lavoro e l’economia è drammaticamente ferma.

Makhmur è nato come campo profughi alla fine degli anni 1990 ospitando inizialmente coloro che furono costretti a fuggire dal Kurdistan turco in seguito ai bombardamenti e rastrellamenti che l’esercito di Ankara aveva scatenato come atto di guerra contro il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk). La pressione sulla zona rimane costante: il 15 aprile scorso, droni turchi hanno sorvolato il villaggio uccidendo tre donne che stavano portando al pascolo le loro pecore.

La situazione locale è sempre in equilibrio instabile a causa della scarsità di mezzi a disposizione. Durante l’emergenza di Covid-19, cento persone sono state isolate in un edificio scolastico per sintomi, ma fortunatamente nessuno ha avuto complicazioni. Il presidio sanitario locale non ha respiratori né strumentazione adeguata, e se il virus si fosse diffuso con rapidità le conseguenze avrebbero potuto essere devastanti.

Il villaggio è suddiviso in cinque zone, chiamate comine, ognuna delle quali è organizzata in quattro quartieri con comitati di base che discutono attività e progetti in un documento destinato ad essere presentato all’assemblea del popolo. La prima cellula del confederalismo democratico nasce proprio nei gruppi di strada.

La quantità di giovani è impressionante: il 70% della popolazione ha meno di 32 anni, 3.500 sono in età scolare. L’educazione rappresenta una priorità assoluta ed è sancita dall’assemblea popolare.

L’impegno femminile è decisivo nella lotta armata. Il protagonismo delle donne nella guerra del Rojava e il supporto da loro fornito durante l’assedio che nel 2014 lo Stato Islamico (ISIS) lanciò a Kobanê si sono rivelati determinanti nella definizione dell’equilibrio attuale. Le donne kurde hanno contribuito a organizzare qualcosa di duraturo: la resistenza popolare.

Il reportage

Scheda autore

Renato Ferrantini e Stefano Pontiggia

Makmour, l'equilibio instabile 1

Renato Ferrantini, ingegnere, è nato e vive a Roma. Appassionato di geopolitica e fotoreportage, dal 2015 è volontario dell’Associazione Baobab Experience attiva sul tema delle migrazioni; ha realizzato una mostra fotografica. Collabora con l’associazione One_life_Onlus con la quale è stato in Bosnia lungo la rotta balcanica in qualità di fotoreporter. Ad ottobre 2019 è stato in missione umanitaria nel campo profughi di Makhmur, nel Kurdistan iracheno. Recenti pubblicazioni sui quotidiani nazionali Il Manifesto, Il Venerdì di Repubblica e Left.

Fotocamera: Fuji XT2
Obiettivo: 18-55 2.8-4 R LM OIS

English version

Makmour, l’equilibio instabile

by Renato Ferrantini.

Text by Renato Ferrantini and Stefano Pontiggia

 

What matters is not our victory but our resistance. (François Mauriac)

“Why should I long for Europe? My parents told me that we were born on the run, hungry, while they bombed us from above, but we survived and now we are fighting for our future. What you call civilization is here, and it is the greatest”.

Makhmur is a village of 13,000 people in Iraqi Kurdistan, almost an enclave in “hostile” territory. Here, it has been said, is where the model of Kurdish democratic confederalism originated. A cohesive and resistant community in which women and young people are the principal players. Since July 2019, the population has been subjected to a work, food and medicine embargo; half of the inhabitants have lost their jobs and the economy is dramatically stagnant.

Makhmur began as a refugee camp in the late 1990s, initially housing those who were forced to flee Turkish Kurdistan following the bombings and raids that the Ankara army had unleashed as an act of war against the Kurdistan Workers’ Party (Pkk). The pressure on the area remains relentless: on 15 April, Turkish drones flew over the village killing three women who were taking their sheep to pasture.

The local situation is always precarious due to the lack of available resources. During the Covid-19 emergency, one hundred people were isolated in a school building from symptoms, but fortunately no one had any complications. The local health service has no respirators or appropriate equipment, and if the virus had spread rapidly the consequences could have been disastrous.

The village is structured into five zones, called comine, each of which is organized into four districts with basic committees that discuss activities and projects in a document to be presented to the people’s assembly. The first cell of democratic confederalism arises in the street groups.

The number of young people is astonishing: 70% of the population is under 32 years of age, 3,500 of whom are school children. Education is an absolute priority and is guaranteed by the popular assembly.

The female commitment is decisive in the armed struggle. The protagonism of women in the Rojava war and the support they provided during the siege that the Islamic State (ISIS) launched in Kobanê in 2014 were decisive in defining the current state of balance. Kurdish women have been instrumental in organizing something enduring: popular resistance.