Lo sport popolare

WJ #142

“Lo sport ha il potere di cambiare il mondo. Ha il potere di ispirare, di unire le persone in una maniera che pochi di noi possono fare.  Parla ai giovani in un linguaggio che loro capiscono.  Lo sport ha il potere di creare speranza dove c’è disperazione. È più potente dei governi nel rompere le barriere razziali, è capace di ridere in faccia a tutte le discriminazioni.”

Nelson Mandela

Lo sport popolare, una pratica di inclusione

Cosa succede quando, allo sport vissuto negli stadi, visto sui media, letto sui quotidiani, togliamo tutta la notorietà, i budget strabilianti, i profitti ultramiliardari, l’accesso non alla portata di tutti e, in alcuni casi, gli spettacoli indegni degli ultimi anni (doping, corruzione e calcio-scommesse)?

Che succede a tutto quello sport che questi elementi neanche li vede la lontano? A quello sport che parla la lingua della condivisione, dell’inclusione, dell’abbattimento di qualunque tipo di barriera di qualsiasi natura, che invita alla fruizione da parte di tutti (proprio tutti), che più che alla competizione pensa alla partecipazione? Succede che quello sport assume il titolo di “popolare” nel vero senso della parola. Succede che si creano realtà quali ad esempio palestre popolari, squadre di calcio fondate sull’azionariato popolare, polisportive che fanno dell’etica sportiva l’elemento sostanziale della loro esistenza. 

Succede che invece delle realtà grandi e blasonate ci si occupa di quelle territoriali “minori”, a misura di periferia, ad esempio. È proprio qui che la pratica dello sport trova la sua dimensione culturale, fatta di tre aspetti: l’abitudine di praticare attività fisica, l’insieme di regole morali che disciplinano le varie forme di sport e l’insieme di tradizioni, insegnamenti che sono propri di ogni disciplina. Qui chi vince non è il mercato, qui la fanno da padroni l’inclusione, la partecipazione e la responsabilità diretta di chi, con tenacia, determinazione e passione frequenta le sessioni di allenamento.

Qui ciò che funziona è la trasformazione degli spazi urbani, da meri contenitori/dormitori a veri e propri nuovi luoghi di aggregazione a disposizione di tutta la comunità locale. Dai giovani, magari più interessati alle discipline a forte contatto fisico ma con profondo rispetto per l’avversario, come, ad esempio, il rugby, la boxe e le arti marziali, alle persone più grandi o anche ai bimbi, più orientati verso discipline “dolci” (pilates, yoga, danza, ecc).

Il senso di comunità e di appartenenza si sviluppa, cresce, si manifesta, senza alcun limite. E tutti sappiamo fino a cosa può portare, Nelson Mandela insegna. Il lavoro fotografico testimonia proprio tutto questo, prendendo come esempio la disciplina della boxe.

Il reportage

Scheda autore

Nicola Pizzuti

Nato a Salerno nel 1967, vivo a Milano e sono un libero professionista. Fotografo per hobby posso dire da sempre, con interruzioni che hanno avuto periodi più o meno lunghi. Da qualche anno ho ricominciato e, più o meno contemporaneamente, ho iniziato a frequentare il Circolo Fotografico Milanese e il gruppo “Racconto Fotografico” del circolo. Grazie, in particolare a quest’ultimo, ora fotografo provando, appunto, a raccontare delle storie con le immagini.

Fotocamera: Fujifilm H2S
Obiettivo: 28 mm

English version

Popular sport, a practice of inclusion

Photo by Nicola Pizzuti

Text by Nicola Pizzuti and Emanuela Corazziari

“Sport has the power to change the world. It has the power to inspire, to unite people in a way that few of us can do. He speaks to young people in a language that they understand. Sport has the power to create hope where there is despair. It is more powerful than governments in breaking racial barriers, is capable of laughing in the face of all discrimination.” Nelson Mandela

What happens when, to the sport experienced in the stadiums, watched in the media, read in the newspapers, we remove all the notoriety, the astonishing budgets, the ultramiliardary profits, access not within the reach of everyone and, in some cases, the unworthy shows of the last years (doping, corruption and football betting)?

What happens to all the sport that these elements do not even see in the distance? To that sport that speaks the language of sharing, of inclusion, of the breaking down of any kind of barrier of any nature, which invites everyone (just everyone) to enjoy it, that more than competition thinks about participation?

It happens that that sport takes the title of “popular” in the true sense of the word. It happens that we create realities such as popular gyms, football teams based on popular stock ownership, multisports that make sports ethics the fundamental element of their existence. 

It happens that instead of the large and blazed realities we deal with those territorial “minor”, in measure of periphery, for example. It is here that the practice of sport finds its cultural dimension, made up of three aspects: the habit of practicing physical activity, the set of moral rules that govern the various forms of sport and the set of traditions, teachings that are proper to every discipline.

Here those who win are not the market, here they make it masters the inclusion, participation and direct responsibility of those who, with tenacity, determination and passion attend training sessions.

What works here is the transformation of urban spaces, from mere containers / dormitories to real new places of aggregation available to the entire local community. From young people, perhaps more interested in disciplines with strong physical contact but with deep respect for the opponent, such as rugby, boxing and martial arts, to older people or even children, more oriented towards “sweet” disciplines (pilates, yoga, dance, etc.).

The sense of community and belonging develops, grows, manifests, without any limit. And we all know how far it can lead, Nelson Mandela teaches.

The photographic work bears witness to all this, taking as an example the discipline of boxing.