Le improbabili verità ottiche del “fotoreporter” Bruno Vidoni

WJ #102

Il 14 gennaio 2001 scompariva, per un male incurabile, Bruno Vidoni. All’approssimarsi dal ventennale della sua morte, non è certo ozioso soffermarsi sulla lezione che l’artista e intellettuale centese ha lasciato. Al giorno d’oggi siamo sempre più bombardati da reportage che hanno la pretesa di mostrare un aspetto del reale, ma già mezzo secolo fa Vidoni spinse a ragionare, utilizzando i modi della concettualità artistica, sul significato della fotografia di reportage e sui suoi usi sociali.

Ad oggi Vidoni è essenzialmente ricordato per una celebre provocazione fotografica realizzata nel 1973, allorché inscenò, tra le strade di Cento e della vicina Pieve di Cento, un falso fotoreportage sugli scontri nel nord dell’Irlanda, che a quel tempo insanguinavano l’isola. Costruito seguendo i tipici luoghi comuni della fotografia bellica, il servizio fotografico vidoniano non documentava ovviamente nulla, ma lasciava vedere ciò che ciascuno voleva vedere. Per questo motivo fu acriticamente preso per vero e pubblicato, nonostante esplicitasse apertamente gli elementi necessari a coglierne la dichiarata impostura. Lo svelamento della burla diede vita a un vivace dibattito nazionale che si protrasse per mesi, proiettando l’artista centese nella storia della fotografia italiana.

Vidoni sosteneva che la fotografia bellica avesse ormai da tempo perduto ogni valore documentario e che il fotoreporter non potesse essere considerato un testimone obbiettivo degli eventi che intendeva documentare, ma solo un fornitore di immagini destinate a soddisfare le richieste dei grandi gruppi editoriali. Le fotografie finivano così con l’ubbidire esclusivamente a funzioni simboliche, creando una inopportuna fascinazione. Vidoni sosteneva inoltre che non esistesse conflitto che non fosse possibile ricostruire nella periferia della propria città; per dimostrare questa tesi mise quindi in scena alcuni falsi reportage a poca distanza dalla propria abitazione, a Cento, Pieve di Cento e sulle rive del fiume Reno.

Quello che risulta poco noto è che già nel 1969 Vidoni aveva realizzato un primo falso reportage, ambientato nella Spagna franchista ma girato pure questo nella propria città natale, e destinato al circuito dei concorsi fotografici. Nella sequenza fotografica, pubblicata su queste pagine solo parzialmente, assistiamo alle ultime ore di vita di un giovane torero: i festeggiamenti in una osteria, la sua vestizione a cui assiste, come in un presagio di morte, una donna velata (forse la madre del torero? Non ci è dato saperlo) e le ultime preghiere rivolte dal ragazzo verso alcune immagini sacre, prima di scendere nell’arena incontro al proprio fatale destino. Sono principalmente due le fonti di ispirazione a cui attinse l’artista centese nel costruire questo fotoracconto, nello specifico la poesia Lamento per la morte di Ignacio Sanchez Mejìas, composta nel 1934 da Federico Garcia Lorca, e il celebre reportage spagnolo di William Eugene Smith, Spanish Village, realizzato nel 1951 per la rivista “LIFE”.

Corrida – Bruno Vidoni

Le fotografie contenevano gli indizi che avrebbero permesso, a chi li avesse saputi cogliere, di identificare l’impostura. Il primo, seppur difficile da cogliere, è il gagliardetto con lo stemma del Comune di Cento che si intravede sulle pareti dell’osteria. Altro indizio è dato dall’uso del grandangolo; è infatti decisamente inverosimile che un fotografo potesse aggirarsi all’interno dell’arena pochi istanti dopo la morte del torero. Ma le spie principali dell’impostura sono le immagini sacre, realizzate dallo stesso Vidoni, dinnanzi alle quali prega il torero; si tratta infatti di icone greco-ortodosse, certamente non afferenti all’iconografia della cattolicissima Spagna. Queste foto, prese per vere da quelle giurie che avrebbero dovuto, teoricamente, possedere il bagaglio tecnico necessario a identificare il falso, vennero esposte all’interno di una rassegna fotografica nazionale.

Due anni dopo, nel 1971, Vidoni prese nuovamente di mira le giurie dei concorsi fotografici, ricostruendo sulle rive del fiume Reno, a poca distanza dalla propria abitazione, una fasulla guerra di Cambogia, estensione di quella vietnamita, che a quel tempo insanguinava il sud-est asiatico.

La serie, intitolata Guerra, esibiva tutti i tipici luoghi comuni della fotografia bellica ed era stata costruita parodiando i servizi realizzati da famosi fotoreporter del periodo come Larry Burrows e Don McCullin. Inutile dire che, ritenuta vera, venne premiata ed esposta, prima a Cascina e successivamente a Bassano del Grappa.

Nel novembre del medesimo anno questo servizio cambogiano venne pubblicato sul numero 11 della prestigiosa rivista “Photo13”, ribattezzato Dalla zona del fuoco di paglia. Il testo redazionale che accompagnava le fotografie dichiarava apertamente la provocazione artistica messa in atto, la quale era ulteriormente esplicitata dalle paradossali didascalie abbinate alle immagini ottiche.

Negli anni successivi Vidoni continuò ad approfondire il discorso avviato sulla mendacità dell’immagine ottica, realizzando ulteriori provocazioni connotate dai medesimi meccanismi creativi: a partire dal 1973 costruì una serie di “false” fotografie belliche, scattate da improbabili truppe d’occupazione tedesche durante il secondo conflitto mondiale, nel 1978 mise in scena un ennesimo falso reportage, in ambito sportivo questa volta, e che ancora una volta venne preso per vero e pubblicato sulle pagine di un importante settimanale a distribuzione nazionale. Negli anni ottanta mise in scena un ennesimo “falso” reportage dal titolo Il filo di Arianna che, costruito come fosse un dossier dei servizi segreti, seguiva le vicende di un gruppo terroristico, e successivamente realizzò dei finti nudi ottocenteschi che vennero esposti e pubblicati, ennesima impostura ritenuta autentica nonostante esibisse tutti gli elementi necessari per non essere gabbati.

Vidoni, che affermava che la realtà è discreta invitando a diffidare delle immagini troppo spettacolari, riassunse le proprie considerazioni sulla mendacità fotografica in un breve saggio pubblicato nel 1985, intitolato Le improbabili verità dell’immagine ottica.

Va ricordato che le sue provocazioni non si limitarono all’uso della fotografia ma pure coinvolsero altre forme espressive, quali la pittura, la tecnica incisoria e, addirittura, la performance artistica: fu memorabile, nel 1989, il suo accreditamento agli Stati Generali del Turismo, che si svolgevano a Ferrara, quale assessore al turismo dell’inesistente comune romagnolo di Santa Bladina, partecipando per tre giorni agli incontri e ai dibattiti in programma.

Il reportage

Scheda autore

Bruno Vidoni

Bruno Vidoni (Cento, 1930-2001) ha lasciato un’importante segno nell’Arte italiana della seconda metà del Novecento. Figura di complesso vigore intellettuale nonché poliedrico (e spesso provocatorio) artista, ha saputo utilizzare e mescolare tecniche, generi e discipline differenti; Vidoni fu fotografo, pittore, incisore, poeta, docente di materie artistiche, gallerista e critico d’arte, storico e ricercatore etnografico. Dal 2015 il Centro Etnografico del Comune di Ferrara, istituto col quale Vidoni collaborò a partire dal 1973, è impegnato nello studio della vasta e complessa produzione artistica e intellettuale vidoniana, socializzandone i risultati attraverso mostre e volumi tematici.

English version

The unlikely optical truths of the “photojournalist” Bruno Vidoni

 

Story edited by Emiliano Rinaldi and Laura Pezzenati

 

On 14 January 2001 died Bruno Vidoni. As we approach the twentieth anniversary of his death, we want to dwell on the lesson that this artist left us. Nowadays we are increasingly surrounded by reportages claiming to show the reality, but half a century ago, Vidoni brought the reflextion on the meaning of reportage photography and its social uses.

 

Vidoni is mainly known for his photographic provocations: in the streets of his small town in Emilia Romagna, Cento, the photographer staged false reportages. The most famous, dated 1973, recreated the clashes in the north of Ireland: built according to the typical clichés of war photography, the service obviously did not document anything, but left to see what everyone wanted to see. For this reason he was uncritically taken for real and published, although in his images he openly make explicit the necessary elements to grasp the imposture.

 

Vidoni argued that war photography had long since lost any documentary value and that the photojournalist could not be considered an objective witness of the events he intended to document, but only a supplier of images designed to meet the demands of large publishing groups.

 

All his images contained clues that would have allowed, to those who would had be able to observe and grasp, to identify the imposture. But it is exactly the fact that neither the juries of the photographic competitions nor the publishers recognized the falsehood, that allowed Vidoni to support his discourse on the mendacity of the optical image.

 

Among his other staged reportages, we find a sequence about the Cambodian war, the story of the last hours of life of a bullfighter in Francoist Spain, numerous series of false war photographies and the story of a terrorist group, but it should be remembered that his provocations were not limited to the use of photography but also involved other forms of expression, such as painting, the technique of engraving and even artistic performance.