La dignità non ha bisogno di passaporto
WJ #125“Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi né identitario né relazionale né storico, definirà un non-luogo” Marc Augé
Spesso ciò che sfugge a localizzazioni ufficiali, descrizioni attestate e racconti internazionali viene dimenticato, lasciato in una dimensione che si rifà solo a se stessa, esclusa dallo scorrere del tempo e dal cambiare dello spazio. Questo è Mae La, il campo profughi a nord-est della Thailandia che accoglie chi è costretto a fuggire quotidianamente dal Myanmar per contrasti etnici. Il Myanmar vive uno tra i conflitti civili più lunghi di sempre che vede le forze della giunta militare di Pyinmana attaccare violentemente le autonomie etniche regionali con l’obbiettivo di scacciarle dal proprio territorio. In questo clima di lotta e abbandono molte sono le persone che tentano la fuga da un territorio che invece di essere sicurezza è sofferenza.
A partire dal 1984 sono arrivati a Mae La circa 50.000 persone, di cui il 90% è di etnia Karen; uomini, donne e bambini privati non solo di tutto ciò che li rende cittadini – nazionalità, cittadinanza, passaporto – ma soprattutto di ciò che li rende persone – dignità, umanità e libertà. Un campo che invece di essere uno spazio d’accoglienza e rifugio è una gabbia delimitata da lunghe recensioni di filo spinato. Gli individui al suo interno non sono semplicemente rinchiusi spazialmente e fisicamente, ma viene imposta tra loro e il resto del mondo una distanza che è morale, o sarebbe meglio dire immorale, tra il buon senso e il paradosso, tra la ragione e un senso di vergogna.
Questa distanza fa si che Mae La si debba necessariamente auto-costruire; al suo interno gli abitanti producono quei beni necessari a garantire loro più che una vita dignitosamente riconosciuta, una sopravvivenza moralmente dolorosa. La libertà viene negata a tal punto che si può uscire dal campo solo per gravi motivi di salute e, per alcuni di loro, per vendere i propri prodotti alla città di Mae Sot. Le fotografie di Tommaso Gioia testimoniano l’abbandono e il disinteresse di cui sono ingiustamente vittime i rifugiati, persone che non sono parte di niente, privati della propria identità, delle proprie radici e del proprio futuro, appartenenti semplicemente ad un “non luogo”.