La città nascosta

WJ #106

Nulla è come sembra. Tutto è irrazionale. (murales)

L’Aquila non è morta, non è neanche il pavido spettro dell’abbandono come molto spesso si vuol rappresentare, ma è una città che, per una parte della sua popolazione, quella più giovane e più ferocemente colpita dal sisma, è madre, culla, tana e nascondiglio. Giovani e adolescenti popolano i vicoli deserti al calar del sole, facendosi luce nel percorso con i telefonini e poi, dopo uno sguardo attento a destra e sinistra, via dentro il portone del “Tonzo” o del “Circoletto” oppure su per la finestra dentro l’Hotel del Sole da cui si vede la piazzetta e «si può controllare se qualcuno arriva» o nello scantinato del “Palazzone”, «dove vanno le prostitute».

Case e vicoli, una volta abitati e vissuti da famiglie e studenti, trovano un nuovo nome che viene dato loro da chi nel 2009 – l’anno del terremoto – era poco più di un bambino ed oggi, pressoché adolescente, vive in un luogo a lui sconosciuto.

Chi stappa una bottiglia di birra, chi gira una canna, chi si allunga su un divano lasciato gentilmente a marcire dal proprietario di casa, chi fa l’amore e chi canta in rima, mimando gli atteggiamenti dei rapper americani. Fittizia vita da bassifondi, raccontata dalle scritte sui muri e dalle siringhe usate. Una piccola comunità, forse l’unica reale, che vive all’interno dei palazzi violando quel concetto ormai inesistente di proprietà privata.

Un invisibile muro sembra amplificare la divisione della città tra adulti e ragazzi che, a causa della mancanza di spazi a loro dedicati, preferiscono ai bar e ai pub il buio e silenzioso antro della città proibita: la zona rossa.

Nella città vecchia, tra muri crollati, materassi e mobili accatastati in ogni dove, le prostitute vendono sollievo alle fatiche degli operai impegnati nella ricostruzione, violando letti abbandonati o scantinati putrescenti sotto gli occhi discreti di guardoni.

Almeno finché la città non verrà ricostruita, almeno finché chi ha vissuto in quegli appartamenti non vi farà ritorno, nel buio di queste vie si fondono inconsapevolmente le due realtà destinate ad essere la metafora di un’assenza in cui la giustificabile presenza di alcuni rappresenta l’ingiustificabile assenza di altri.

Il reportage

Scheda autore

Marco D’Antonio

Marco D’Antonio nasce a L’Aquila nel 1978. È autore di due libri. Il primo è Volti, premiato nella sezione fotografia al premio Annalisa Scafi nel 2008. Il secondo è L’Aquila anno 0, racconta la vita nella sua città ad un anno dal terremoto. Insieme ad altri fotografi, pubblica il volume 32 secondi per Massimo Roncari. Alcuni suoi lavori sono stati esposti in mostra a Genova, Milano, Roma, Napoli, Palermo, Berlino, Parigi e Londra. È fondatore dell’associazione “Segni” e direttore dell’agenzia fotografica Epochanews.

Fotocamera: Canon Eos 5D mark II- Fuji X Pro II
Obiettivo: Canon 28mm f2.8 - Canon 50mm f1.4 - Fuji 16-55mm f2.8

English version

The hidden city

Pictures by Marco D’Antonio.

Text by Marco D’Antonio and Stefano Pontiggia

 

Nothing is as it seems. Everything is irrational. (murales)

 

L’Aquila is not dead. It is not even the fearful specter of abandonment as it is very often intended, a city that, for part of its population is mother, cradle, and a hiding place. Youths and teenagers populate the deserted alleys at sunset, shedding light on the route with mobile phones and then, after a careful look to the right and left, go inside the door of the Tonzo or Circoletto or up the windows inside the Hotel del Sole from which one one see the little square and “one can check if someone arrives”. The basement of the Palazzone, “where prostitutes go”, is another gateway.

 

Houses and alleys, once inhabited and lived by families and students, find a new name given to them by those who, in 2009, the year of the earthquake, were little more than children and today, almost adolescent, live in a place they do not recognize.

Some untap a bottle of beer, some spin a joint, some stretch out on a sofa kindly left to rot by the home owner. Some make love and others sing in rhyme mimicking the attitudes of American rappers. This is a fictitious life from the slums, told by the writings on the walls and the used syringes. A small community, perhaps the only real one, is living inside the buildings violating the lifeless concept of private property.

 

An invisible wall seems to amplify the division of the city between adults and youths who, due to the lack of spaces dedicated to them, prefer the dark and silent cavern of the inner city to bars and pubs.

In the old town, among collapsed walls, mattresses and furniture are stacked everywhere; prostitutes sell relief to the workers involved in reconstruction, violating abandoned beds or putrescent basements under the discreet eyes of voyeurs.

 

At least until the city will not be rebuilt, at least until those who lived in those apartments will not return, in the darkness of these streets, two realities melt together destined to be the metaphor in which the justifiable presence of some represents the unjustifiable absence of others.