Il sangue del popolo

WJ #107

“La sangre del pueblo no se negocia”. Così in una fotografia si riassume il messaggio del popolo dell’America Latina al mondo intero. L’urlo di resistenza nei colori tinteggiati dagli scatti vividi e presenti di Edu, Eduardo De León Herencia, attraversa i confini. Innanzitutto quelli nazionali, dato che la prima reazione del presidente Lenín Moreno alle proteste di strada del 3 ottobre è stata quella di spostare il governo dalla capitale ecuadoregna Quito alla città costiera di Guayaquil. Ma non è affatto bastato.

Ad inaugurare l’ondata di proteste in Ecuador, primi fra tutti sono stati i tassisti e gli autotrasportatori. Perché il sangue del popolo qui prende ossigeno dai sussidi per il carburante in vigore dagli anni Settanta. Sino ad oggi; con i nuovi accordi fra Lenìn Moreno e il Fondo Monetario Internazionale, il governo puntava infatti al recupero di circa 1,3 miliardi di dollari per il paese, a fronte del credito di oltre 4 miliardi da parte dell’FMI.

Tutto questo al fine di poter risollevare l’economia dell’Ecuador, o almeno così ha dichiarato Moreno, ma di sicuro non le tasche del popolo. Ecco perché al corteo si sono uniti dapprima gli studenti, e, non secondariamente, i principali gruppi della rappresentanza indigena nel paese. Di carburante infatti si parla, eppure è abbastanza evidente che non si tratti solamente di questo, la questione è ben più profonda e radicata. Non è un caso che l’Ecuador sia uno dei paesi che, negli ultimi mesi, ha fortemente richiesto le dimissioni del proprio Presidente. E non è il solo. L’ondata di proteste e mobilitazioni sta risuonando in tutta l’America Latina.

Qualcosa va cambiato, gridano i popoli, lo scrivono su cartelli, striscioni, lo urlano nelle piazze, le mani sollevate in segno di protesta pacifica o abbassate a proteggere i corpi dalle cariche della polizia. É una questione di democrazia, o meglio di autodeterminazione e opposizione al neoliberalismo, visto che di democrazia, impropriamente, continuano a parlare gli stessi governi, compreso quello ecuadoregno di Moreno. Che nel frattempo ha risposto alle proteste al prezzo non trascurabile di 8 morti, 1.340 feriti e 1.192 persone detenute.

Dopo 12 giorni di proteste ininterrotte il popolo dell’Ecuador tutto unito, il 20 ottobre ha ottenuto una vittoria: con l’abolizione del decreto 883 sono stati ripristinati i sussidi al carburante. Soprattutto ha dimostrato che una coscienza civile e sociale, una sinistra, può forse risorgere dallo spettro del “correismo” passato contro il neoliberalismo e le forme di privatizzazione.

La strada è lunga, le battaglie nel paese sono molte e una vittoria non basta, ma c’è speranza finché il sangue del popolo (r)esiste.

Il reportage

Sud America, intervista a Edu León Herencia

di Matilde Castagna e Giulio Di Meo/Traduzione a cura di Sofia Pesce

 

Edu León è un fotografo spagnolo che vive a Quito da otto anni. Il suo lavoro si concentra sui conflitti sociali e in particolar modo alle vicende migratorie. In Europa, insieme al fotografo Olmo Calvo, ha sviluppato un progetto chiamato “Invisible Borders” (www.fronterasinvisibles.org) che mostra la situazione ai confini europei e il controllo dell’identità in Spagna. Ha lavorato con organizzazioni internazionali come la Croce Rossa, Amnesty International, Oxfam. Ha pubblicato le sue immagini su diverse testate come El País, Univisión Noticias, The Guardian, Time, Newsweek, Vice News, New York Times. Vincitore del premio “Fotogiornalismo per la pace” a Quito nel 2016 ed è stato finalista al Gabriel García Márquez Award di Medellín nel 2019.

 

Edu tu sei spagnolo, però vivi a Quito da più di 7 anni e conosci bene la situazione nel Paese. Parlaci un po’ delle proteste e della situazione in Ecuador.

Dopo aver vissuto 10 anni del “correismo”, con i movimenti sociali e la sinistra smembrati e senza la possibilità di esprimere autocritiche al processo politico, le strade erano rimaste senza proteste. Le proteste sono scaturite dal decreto 883 che ha abrogato il sussidio alla benzina che storicamente ha avuto l’Equador. 40 anni fa in Equador nacque il boom petrolifero, con i il primo barile di petrolio uscito dall’Amazzonia Equadoriana.

Storicamente molte delle proteste indigene e popolari sono sorte per motivi economici, in questo caso sono derivate dall’aumento della benzina e per le misure sconosciute che il governo dovrà applicare dopo l’accordo con l’FMI. Oltre a questo tante altre battaglie sono state messe a tacere dal governo di Lenin Moreno che ha operato con misure antisociali delineate da gruppi di potere del paese, legati alla destra. Ecco perché la sinistra, i movimenti sociali debilitati dal “correismo” si sono riversati per le strade; non solo il movimento indigeno ma anche quello ambientalista, quello femminista, i lavoratori, gli studenti, sono tornati ad esprimere il loro parere nelle strade, un’esplosione sociale dopo anni di silenzio. Il risultato, secondo me, è abbastanza deludente, con le proteste non si sono raggiunti grandi risultati sociali, si è ottenuto solo l’abrogazione del sussidio sulla benzina, mentre le altre misure neoliberaliste restano parte dell’agenda politica di questo governo.

 

Proteste in Equador, poi in Chile, la migrazione e la situazione il Venezuela, l’estremismo della destra in Brasile. Che sta succedendo in America Latina? Qual è la tua opinione sul momento sociale e politico?

Il latinoamerica, disgraziatamente, è sempre stato il balcone da cui si affacciano gli Stati Uniti. Da parte loro c’è sempre stata una forte ingerenza politica sui governi e adesso, difronte agli interessi economici e geopolitici di nazioni come Cina e Russia, questa presenza viene segnata da un post guerra-fredda in cui le politiche economiche sono diventate merce di scambio di una macropolitica bicefala. I governi denominati “del socialismo del XXI secolo”, non hanno saputo rispondere alle richieste storiche della sinistra in America Latina, creando delle rotture tra le organizzazioni politiche di base e le loro articolazioni. Questo ha creato una divisione brutale nei movimenti sociali, mentre le destre, sponsorizzate dai governi di turno degli Stati Uniti, hanno avuto l’opportunità di puntare il dito contro le politiche dei governi progressisti. A questa situazione si è unita la spinta dall’evangelismo creando il cocktail necessario per far arrivare al potere un personaggio come Bolsonaro. Ma la sua elezione, sembra aver risvegliato la sinistra e i movimenti sociali che sono tornati a lottare contro le ingiustizie sociali.

Sud America, intervista a Edu León Herencia 2

Quando ti sei avvicinato alla fotografia?

La fotografia è arrivata nella mia vita per casualità. Prima di fare il fotografo ho svolto i lavori più disparati, ho venduto libri, lavorato al supermercato e come contadino in campagna. Ho iniziato e mollato gli studi di giurisprudenza, educazione cinofila e radio. A 27 anni ho iniziato a studiare fotografia, trovando una strada che mi sta permettendo di partecipare in modo attivo e diretto nella società che vivo. È stata l’opportunità per evolvere e crescere come persona ed essere umano, ascoltando e facendomi ascoltare.

 

Perchè hai scelto il fotogiornalismo?

Ho scelto il fotogiornalismo per il mio impegno politico e sociale, credo che il giornalismo e l’informazione, ancora oggi e nonostante tutto, sono un pilastro della società; conoscere quello che succede intorno a noi e di conseguenza avere gli strumenti sociali per una partecipazione piena alla vita politica, intesa come relazione dell’individuo con la società in cui vive. Quando ho iniziato a studiare fotografia non avevo questa convinzione e coscienza, come con gli altri studi intrapresi e poi abbandonati. Alla fine del percorso di studio ho iniziato a seguire e fotografare proteste e manifestazioni e lì nelle strade, grazie ai consigli di altri fotografi di giornali e agenzie, ho imparato l’essenza di cosa vuol dire fare il “fotogiornalista”.

 

Cosa ci puoi dire del tuo primo lavoro?

Il mio primo lavoro fotografico è stato il progetto presentato per l’esame finale dei miei studi. Ricordo che mi vestivo da senzatetto e chiedevo soldi nella Gran Via di Madrid, da un guanto e con una macchina fotografica digitale precaria, fotografavo i passanti, soprattutto come mi guardavano. Scoprì sguardi di ripudio, di disgusto e odio, altri giravano la testa e semplicemente non volevano vedere. Solo i bambini guardavano direttamente, erano gli unici che non avevano nessun pregiudizio dentro i loro sguardi; non dovremmo mai perdere questo sguardo.

Sud America, intervista a Edu León Herencia 1

 

L’informazione e il fotogiornalismo affrontano tempi complessi. Credi che questa professione avrà futuro?

Credo che siamo nel miglior momento della fotografia in generale. Non è una cosa brutta che la fotografia sia accessibile sempre a più persone, credo che sia un’ottima opportunità per la professione. Oggi, però, è necessaria un’educazione all’immagine che dovrebbe essere centrale nei sistemi educativi delle scuole di tutto il mondo. Bisogna dare strumenti ai bambini e ai giovani, che già utilizzano la fotografia come forma di espressione, per educarli al linguaggio visuale. E anche noi fotografi dobbiamo studiare e conoscere le nuove forme di comunicazione.

 

Quali sono i suoi suggerimenti per la prossima generazione di fotografi?

Devono apprendere a guardare la quotidianità, non serve andare in guerra o in un conflitto per raccontare storie. Ognuno dovrebbe essere motivato a scoprire e raccontare la propria città, il proprio quartiere, le storie a noi vicine, relazionandoci ogni giorno con la realtà che ci circonda,

se si pensa solo al successo e alla visibilità, al prossimo Word Press Photo, meglio lasciare la fotografia. Per fare fotogiornalismo e reportage è necessario avere uno sguardo personale, che possiamo coltivare solo imparando a leggere la nostra realtà più prossima.

 

Quanto conta nel fotogiornalismo la parte estetica?

Credo che non sia sbagliato pensare anche al lato estetico. Però credo che più che l’estetica conti ricercare un linguaggio fotografico ampio e differente. Inoltre penso che usare vari linguaggi arricchisce la nostra professione e valorizza il nostro lavoro. Non bisogna avere paura, anche nel giornalismo ci sono differenti stili, come la cronaca, l’articolo di opinione, ecc.. noi come fotografi dobbiamo ampliare il nostro sguardo e raccontare la realtà che viviamo sotto diverse lenti.

 

Credi che il reportage fotografico e la ricerca artistica possono unirsi?

No, non lo credo, anche se già alcuni reportage presentano una componente concettuale e artistica, come alcuni lavori pubblicati dal NYT, come quello di Dulce Pinzon sui “Supereroi” negli Stati Uniti. Cristina de Middle, con il suo sguardo profondo e particolare che invita a riflettere su temi sociali, fa parte della Magnum. Si sta diversificando la forma di raccontare la realtà ed è una cosa buona, ma il fotogiornalismo non deve smettere di interrogare i potenti. Così come è necessario parlare e “mostrare” anche a chi non la pensa come noi.

 

Quali sono i tuoi progetti futuri?

Continuare a seguire il tema delle migrazioni che da sempre fa parte della mia carriera come fotografo. Sto seguendo inoltre la situazione venezuelana sotto diversi aspetti ed ho il desiderio di tornare in Spagna, il paese che ho lasciato da 8 anni e che vedo, da lontano, avvicinarsi a nuove forme fascismi.

Sud America, intervista a Edu León Herencia

 

Scheda autore

Eduardo De León Herencia

Ecuador en Resistencia

Edu León è un fotografo spagnolo che vive a Quito da otto anni. Il suo lavoro si concentra sui conflitti sociali e in particolar modo alle vicende migratorie. In Europa, insieme al fotografo Olmo Calvo, ha sviluppato un progetto chiamato “Invisible Borders” (www.fronterasinvisibles.org) che mostra la situazione ai confini europei e il controllo dell’identità in Spagna. Ha lavorato con organizzazioni internazionali come la Croce Rossa, Amnesty International, Oxfam. Ha pubblicato le sue immagini su diverse testate come El País, Univisión Noticias, The Guardian, Time, Newsweek, Vice News, New York Times. Vincitore del premio “Fotogiornalismo per la pace” a Quito nel 2016 ed è stato finalista al Gabriel García Márquez Award di Medellín nel 2019.

English version

The blood of the people 

Photo by Eduardo De León Herencia

Text by Matilde Castagna

“La sangre del pueblo no se negocia” / “The blood of the people is not negotiable”. This is how a photograph tells the entire message from Latin America to the rest of the world. The cry of people’s resistance crosses boundaries through the painted colors of Edu’s, Eduardo De León Herencia’s, photography. Firstly, inside the nation, since the Ecuadorian President Lenìn Moreno was willing to move the Government from the capital, Quito, to the quieter, coastal town of Guayaquil.

Trucks and taxi drivers are the ones who started it all in first person, but soon students, workers, older people and, most important, the influent groups of indigenous people joined them. In this country, everybody’s blood gets oxygen from the petrol country subsidies, an important benefit dating back to the 70s, but the government of today had a slightly different perspective: with taking this money out of people’s pockets, the “saving” amount would roughly be 1,3 billion in connection with a 4 billion credit granted by the consequent agreement with the IMF.

All this was meant to be done in the interest of Ecuador, to lift the national economy, this is what Moreno declared. Although the nation does not seem to think the same and even if we are here apparently talking about fuel, it is quite clear that this is not the only point to be involved or else Ecuador wouldn’t be, in fact, one of the countries that have been asking over the past months for President Moreno to resign. And Ecuador is not alone. The wave of protests and demonstrations has recently been echoing through Latin America.

Things need to change, as people cry out loud in the streets, they write it on signs, their hands raised in peace or down to defend their bodies from police charges. It’s about democracy or about self-consciousness and self-determination of one country, since the term democracy is nowadays being abused. It means opposition to the neoliberalism system that Moreno’s Government would like to pursue and that, meanwhile, has responded with 8 deaths plus 1.340 wounded and 1.192 imprisoned people.

Nevertheless, after 12 days of protest with no break, the whole, united population of Ecuador, on the 20th of October obtained the abolition of the proposed 883 decree. A new sense for the common good and a social and civil fighting spirit seem to be born again, out of the ashes of the recent decades. The road is long, battles are many to be faced and one single victory isn’t certainly enough, but hope will survive until the people’s blood (r)exists.