Sud America, intervista a Edu León Herencia
di Matilde Castagna e Giulio Di Meo/Traduzione a cura di Sofia Pesce
Edu León è un fotografo spagnolo che vive a Quito da otto anni. Il suo lavoro si concentra sui conflitti sociali e in particolar modo alle vicende migratorie. In Europa, insieme al fotografo Olmo Calvo, ha sviluppato un progetto chiamato “Invisible Borders” (www.fronterasinvisibles.org) che mostra la situazione ai confini europei e il controllo dell’identità in Spagna. Ha lavorato con organizzazioni internazionali come la Croce Rossa, Amnesty International, Oxfam. Ha pubblicato le sue immagini su diverse testate come El País, Univisión Noticias, The Guardian, Time, Newsweek, Vice News, New York Times. Vincitore del premio “Fotogiornalismo per la pace” a Quito nel 2016 ed è stato finalista al Gabriel García Márquez Award di Medellín nel 2019.
Edu tu sei spagnolo, però vivi a Quito da più di 7 anni e conosci bene la situazione nel Paese. Parlaci un po’ delle proteste e della situazione in Ecuador.
Dopo aver vissuto 10 anni del “correismo”, con i movimenti sociali e la sinistra smembrati e senza la possibilità di esprimere autocritiche al processo politico, le strade erano rimaste senza proteste. Le proteste sono scaturite dal decreto 883 che ha abrogato il sussidio alla benzina che storicamente ha avuto l’Equador. 40 anni fa in Equador nacque il boom petrolifero, con i il primo barile di petrolio uscito dall’Amazzonia Equadoriana.
Storicamente molte delle proteste indigene e popolari sono sorte per motivi economici, in questo caso sono derivate dall’aumento della benzina e per le misure sconosciute che il governo dovrà applicare dopo l’accordo con l’FMI. Oltre a questo tante altre battaglie sono state messe a tacere dal governo di Lenin Moreno che ha operato con misure antisociali delineate da gruppi di potere del paese, legati alla destra. Ecco perché la sinistra, i movimenti sociali debilitati dal “correismo” si sono riversati per le strade; non solo il movimento indigeno ma anche quello ambientalista, quello femminista, i lavoratori, gli studenti, sono tornati ad esprimere il loro parere nelle strade, un’esplosione sociale dopo anni di silenzio. Il risultato, secondo me, è abbastanza deludente, con le proteste non si sono raggiunti grandi risultati sociali, si è ottenuto solo l’abrogazione del sussidio sulla benzina, mentre le altre misure neoliberaliste restano parte dell’agenda politica di questo governo.
Proteste in Equador, poi in Chile, la migrazione e la situazione il Venezuela, l’estremismo della destra in Brasile. Che sta succedendo in America Latina? Qual è la tua opinione sul momento sociale e politico?
Il latinoamerica, disgraziatamente, è sempre stato il balcone da cui si affacciano gli Stati Uniti. Da parte loro c’è sempre stata una forte ingerenza politica sui governi e adesso, difronte agli interessi economici e geopolitici di nazioni come Cina e Russia, questa presenza viene segnata da un post guerra-fredda in cui le politiche economiche sono diventate merce di scambio di una macropolitica bicefala. I governi denominati “del socialismo del XXI secolo”, non hanno saputo rispondere alle richieste storiche della sinistra in America Latina, creando delle rotture tra le organizzazioni politiche di base e le loro articolazioni. Questo ha creato una divisione brutale nei movimenti sociali, mentre le destre, sponsorizzate dai governi di turno degli Stati Uniti, hanno avuto l’opportunità di puntare il dito contro le politiche dei governi progressisti. A questa situazione si è unita la spinta dall’evangelismo creando il cocktail necessario per far arrivare al potere un personaggio come Bolsonaro. Ma la sua elezione, sembra aver risvegliato la sinistra e i movimenti sociali che sono tornati a lottare contro le ingiustizie sociali.
Quando ti sei avvicinato alla fotografia?
La fotografia è arrivata nella mia vita per casualità. Prima di fare il fotografo ho svolto i lavori più disparati, ho venduto libri, lavorato al supermercato e come contadino in campagna. Ho iniziato e mollato gli studi di giurisprudenza, educazione cinofila e radio. A 27 anni ho iniziato a studiare fotografia, trovando una strada che mi sta permettendo di partecipare in modo attivo e diretto nella società che vivo. È stata l’opportunità per evolvere e crescere come persona ed essere umano, ascoltando e facendomi ascoltare.
Perchè hai scelto il fotogiornalismo?
Ho scelto il fotogiornalismo per il mio impegno politico e sociale, credo che il giornalismo e l’informazione, ancora oggi e nonostante tutto, sono un pilastro della società; conoscere quello che succede intorno a noi e di conseguenza avere gli strumenti sociali per una partecipazione piena alla vita politica, intesa come relazione dell’individuo con la società in cui vive. Quando ho iniziato a studiare fotografia non avevo questa convinzione e coscienza, come con gli altri studi intrapresi e poi abbandonati. Alla fine del percorso di studio ho iniziato a seguire e fotografare proteste e manifestazioni e lì nelle strade, grazie ai consigli di altri fotografi di giornali e agenzie, ho imparato l’essenza di cosa vuol dire fare il “fotogiornalista”.
Cosa ci puoi dire del tuo primo lavoro?
Il mio primo lavoro fotografico è stato il progetto presentato per l’esame finale dei miei studi. Ricordo che mi vestivo da senzatetto e chiedevo soldi nella Gran Via di Madrid, da un guanto e con una macchina fotografica digitale precaria, fotografavo i passanti, soprattutto come mi guardavano. Scoprì sguardi di ripudio, di disgusto e odio, altri giravano la testa e semplicemente non volevano vedere. Solo i bambini guardavano direttamente, erano gli unici che non avevano nessun pregiudizio dentro i loro sguardi; non dovremmo mai perdere questo sguardo.
L’informazione e il fotogiornalismo affrontano tempi complessi. Credi che questa professione avrà futuro?
Credo che siamo nel miglior momento della fotografia in generale. Non è una cosa brutta che la fotografia sia accessibile sempre a più persone, credo che sia un’ottima opportunità per la professione. Oggi, però, è necessaria un’educazione all’immagine che dovrebbe essere centrale nei sistemi educativi delle scuole di tutto il mondo. Bisogna dare strumenti ai bambini e ai giovani, che già utilizzano la fotografia come forma di espressione, per educarli al linguaggio visuale. E anche noi fotografi dobbiamo studiare e conoscere le nuove forme di comunicazione.
Quali sono i suoi suggerimenti per la prossima generazione di fotografi?
Devono apprendere a guardare la quotidianità, non serve andare in guerra o in un conflitto per raccontare storie. Ognuno dovrebbe essere motivato a scoprire e raccontare la propria città, il proprio quartiere, le storie a noi vicine, relazionandoci ogni giorno con la realtà che ci circonda,
se si pensa solo al successo e alla visibilità, al prossimo Word Press Photo, meglio lasciare la fotografia. Per fare fotogiornalismo e reportage è necessario avere uno sguardo personale, che possiamo coltivare solo imparando a leggere la nostra realtà più prossima.
Quanto conta nel fotogiornalismo la parte estetica?
Credo che non sia sbagliato pensare anche al lato estetico. Però credo che più che l’estetica conti ricercare un linguaggio fotografico ampio e differente. Inoltre penso che usare vari linguaggi arricchisce la nostra professione e valorizza il nostro lavoro. Non bisogna avere paura, anche nel giornalismo ci sono differenti stili, come la cronaca, l’articolo di opinione, ecc.. noi come fotografi dobbiamo ampliare il nostro sguardo e raccontare la realtà che viviamo sotto diverse lenti.
Credi che il reportage fotografico e la ricerca artistica possono unirsi?
No, non lo credo, anche se già alcuni reportage presentano una componente concettuale e artistica, come alcuni lavori pubblicati dal NYT, come quello di Dulce Pinzon sui “Supereroi” negli Stati Uniti. Cristina de Middle, con il suo sguardo profondo e particolare che invita a riflettere su temi sociali, fa parte della Magnum. Si sta diversificando la forma di raccontare la realtà ed è una cosa buona, ma il fotogiornalismo non deve smettere di interrogare i potenti. Così come è necessario parlare e “mostrare” anche a chi non la pensa come noi.
Quali sono i tuoi progetti futuri?
Continuare a seguire il tema delle migrazioni che da sempre fa parte della mia carriera come fotografo. Sto seguendo inoltre la situazione venezuelana sotto diversi aspetti ed ho il desiderio di tornare in Spagna, il paese che ho lasciato da 8 anni e che vedo, da lontano, avvicinarsi a nuove forme fascismi.