Il coraggio di essere vivi
WJ #91Un reportage che racconta la volontà di andare avanti dei giovani sopravvissuti al massacro di Garissa. Immagini che trasmettono chiaramente il peso che si porta dentro chi è sopravvissuto ad un evento del genere
È l’alba del 2 aprile del 2015 quando il gruppo terrorista Al Shabaab, appartenente alla galassia di Al-Qaeda, irrompe nel campus dell’Università di Garissa, Kenya. Poco prima delle 5 del mattino, a colpi di kalashnikov e granate, i terroristi prendono d’assalto gli studenti, ragazze e ragazzi, alcuni ancora nelle loro camere, altri già riuniti per le preghiere del mattino nelle classi adibite a chiese. Dividono gli studenti per credo religioso, liberano alcuni musulmani e tengono in ostaggio il resto: l’80% degli studenti è infatti di religione cattolica.
Per 16, lunghissime ore, gli assalitori si accaniscono con inumana ferocia su giovani inermi, in una mattanza in cui non c’è spazio per alcuna pietà. Il bilancio alla fine della giornata presenta numeri da tragedia: si conteranno 147 vittime accertate, 79 i feriti. La scena che si presenta ai soccorritori e alle forze di polizia, riuscite a fare irruzione solo dopo molte ore e con molta fatica, è a dir poco apocalittica: a numerosi corpi riversi manca la testa, ovunque il rosso del sangue.
Rachel, 21 anni, Anna, 20 anni, Eveline, 23 anni, Ben, 26 anni, erano lì, quel giorno. Da quel giorno, sopravvissuti ad un orrore incancellabile, marchiato a fuoco. Da quel giorno, obbligati ad andare avanti nonostante il peso indicibile del ricordo di quei momenti. Le Bibbie sporche di sangue, le urla, gli spari, l’inglese fluente della voce di uno dei terroristi, un amico colpito a morte, il cui corpo ormai morente in caduta diventa scudo che salva la vita del corpo su cui cade … Ad ognuno di loro tocca una scheggia di quel dolore, piantata per sempre in un qualche angolo della memoria. Ad ognuno un’immagine, un suono,un indelebile marchio che separa il “prima” e il “dopo” quel giorno. Rachel che ancora non può camminare (ma forse, un giorno, potrà, così spera, lei e tutti), Anna colpita a braccia e gambe, per 7 ore in una pozza di sangue, con il ricordo vivido degli occhi di ghiaccio di uno dei terroristi, e degli occhi chiusi per sempre del suo ragazzo, morto nell’attacco, Eveline che pregava con i suoi amici quando una scarica di proiettili si abbatté su di loro, Ben colpito da una granata: a loro, sopravvissuti alla follia, il compito crudo e doloroso di somatizzare, di sanare ferite, del corpo e soprattutto dell’anima.
Nessuno di loro è più tornato a Garissa, è un altrove il luogo dove hanno ripreso la loro vita, i loro studi: impossibile pensare al domani in quel posto maledetto dove troppo domani è stato strappato a troppi, in un modo troppo terribile. Ma è proprio grazie a loro, al loro coraggio, alla loro capacità di guardare al futuro, ancora e nonostante tutto, grazie all’esempio di queste persone riuscite ad essere più forti dell’odio,del male assurdo, gratuito ed insensato, se si può leggere ancora la parola speranza. La speranza più vera, la speranza più bella, quella che si scrive negli occhi di chi ha visto da vicino il peggiore dei baratri, ma è ancora qui, testimonianza viva, universale, preziosa del lato migliore di ciò che si dice essere umano.
Le immagini dei loro occhi, dei loro volti, sono allora l’immagine di una storia che appartiene a tutti, resoconto visivo nitido e chiaro del coraggio di restare vivi: loro, custodi e testimoni di atroci tormenti, offrono con il loro sguardo la forza di chi il male lo subisce, ma non lo fa vincere.
Questo reportage è un omaggio a loro, che con la potenza del loro reagire, con la capacità sovrumana di raccontare quanto subìto, rendono giustizia anche a coloro che purtroppo non ce l’hanno fatta, mantenendone vivo il ricordo, non facendo cadere un velo di oblio su una delle pagine più terrificanti nella storia recente del fin troppo martoriato continente africano.