I semi di Pino
WJ#151«Giustizia è che tutti sappiano la verità. Gli sconfitti sono coloro che non hanno avuto il coraggio di arrivare a scoprire la verità. Chi ha perso è lo Stato perché uno Stato che non sa riconoscere la verità è uno Stato che ha perso, uno Stato che non esiste». Licia Rognini Pinelli
Sguardi non accidentali su Giuseppe Pinelli: istantanee di una storia collettiva
Alla maniera di una polaroid, un’immagine istantanea che si svela a poco a poco. Così è nato questo racconto fotografico che, mischiando parole e immagini, prova a ricostruire la storia di Pino.
«San Siro, all’epoca, era un mondo diverso: c’erano queste casone, i cortili, un sacco di gente. Dalle mie parti la gente non stava in cortile, stava dentro casa e se andava in cortile ci stava pochi minuti. Invece lì era la vita, pianerottolo per pianerottolo, scala per scala, cortile per cortile. Si conoscevano tutti e tutti si davano del “tu”. Si entrava in un mondo che era geograficamente e culturalmente diverso, ma era facile diventarne subito parte»: Marino, che ha trasportato a Massa Carrara le ceneri di Pino, ancora ricorda il quartiere che ha visto crescere la famiglia Pinelli.
Perché San Siro ci consegna tracce di un passato assolutamente presente. I muri ci parlano e si fanno custodi della memoria. Esattamente come le parole di chi con Pino ha vissuto. Sguardi, mani e racconti che tratteggiano ciò che è stato.
E che consentono di ricostruire, almeno in parte, il quadro andato in frantumi ormai 55 anni fa. «Per ricomporre la storia, ma anche i visi, le voci, i sogni, le speranze, l’impegno, affrontare l’atrocità non solo di una morte, e trovare il coraggio per fare quelle domande che attendevano risposte da anni. E allora cercare, leggere, studiare, approfondire, permettere di farsi male, di risentire intenso il dolore senza più sfuggirlo, nel timore però di fare male, di provocare dolore, nel chiedere e rievocare ricordi»: Claudia sa quale è stato il percorso per ricomporre l’infranto.
Milano non ha mai smesso di sapere e di ricordare. La città, tutta, è diventata testimone di un’ingiustizia e di un bisogno, appunto, di verità. «La strage di Piazza Fontana e l’assassinio di Pinelli furono per me il crollo di una speranza, la percezione della violenza dello Stato. La morte di Pino suscitò un moto di indignazione cittadina e di rabbia quasi superiore allo sbigottimento e al dolore per la strage. Tu mi chiedi il perché? Penso che la città avesse capito che Pinelli era vittima innocente di una ingiustizia». Giacomo racconta di una città che si fa coscienza civile.
E la vita di Pino?
«Io andavo da Licia a farmi battere a macchina gli articoli. All’inizio andavo con una finalità specifica, farmi copiare a macchina una scritto, poi è diventato un discorso molto più profondo, uno scambio continuo che ti teneva lì per ore. E poi arrivavano le bambine ed allora si cominciava a giocare, si creava una famiglia collettiva»: Roberto consente alla vita di Pino di emergere con grande potenza, in una narrazione collettiva che permette di ricostruire quello che lo Stato ha consapevolmente troncato: il motorino, i libri, le lettere, la macchina da scrivere, l’anarchia e l’esperanto.
«Pino conosceva l’esperanto. Avrebbe voluto insegnarlo. Quella lingua dei popoli che abbatte i confini perché di confini non ne ha… un po’ come il “cielo”, che ci faceva scrutare con un telescopio che aveva costruito e con il quale ci descriveva le costellazioni e ci insegnava a sognare. Fu proprio a un corso di esperanto che Pino e Licia si conobbero. Da quel momento divennero inseparabili fino al 12 dicembre del 1969. Quando tutto si è spezzato»: così Silvia racconta i sogni del padre e l’incontro con la madre. Licia non ha mai smesso di cercare la verità. Anche l’assegnazione dell’Ambrogino d’Oro, massimo riconoscimento del comune di Milano, purtroppo avvenuta postuma il 10 gennaio 2025, racconta quanto forte sia stata la resistenza di Licia Rognini Pinelli al potere.
«Pino non era di molte parole ma le usava bene. Pur avendo fatto scelte politiche chiare, manteneva i rapporti con tutti, cercava di fare rete, salvaguardando sempre le autonomie dei gruppi spontanei che nascevano. Fin dal primo incontro a Senigallia, io ho sempre pensato a Pino come un rivoluzionario anarchico pacifista»: in queste parole di Enrico c’è la sintesi di chi è stato Giuseppe Pinelli.
Tutto questo, d’improvviso, sembra scomparire, inghiottito dalla nebbia del potere. Ma, in realtà, come un fiume carsico, lo sguardo di Pino continua a scavare: raccontare questo fiume e riannodare questi fili è il compito che si pone questo racconto fotografico per immagini.