Ho visto e non ho più dimenticato

WJ #139

In Italia c’è dunque un morto sul lavoro ogni otto ore, in Lombardia uno ogni due giorni. Le denunce presentate per infortuni sul lavoro, nel 2022, in Lombardia sono state 131.692 (+26,84% rispetto al 2021) di cui 177 con esito mortale, in Italia 697.773 (+25,67% rispetto al 2021) di cui 1.090 con esito mortale. Le denunce di malattia professionale, sempre nel 2022, sono state in Lombardia 3.231 e in Italia 60.774.

Se allarghiamo lo sguardo, stando ai dati EUROSTAT, nel periodo 2008–2020 nell’Unione Europea i morti sul lavoro sono stati oltre 48.000, senza contare gli infortuni mortali in itinere, i quali non sono inclusi nelle statistiche europee. Si tratta di una strage quotidiana. Ma che senso hanno questi numeri? Che cosa c’è dietro di essi? Questi numeri hanno un nome e un cognome, vite spezzate o che cambieranno per sempre. Chi erano, chi sono, perché e come è successo, quali sono i segni indelebili rimasti? Ferma restando la necessità di avere una dimensione quantitativa del fenomeno, quello che non può entrare in una statistica è il dolore delle persone, gli sconvolgimenti nella vita dei familiari di chi non c’è più o di chi è sopravvissuto ma è costretto a vivere con una  disabilità: vite infrante in cui si sgretolano progetti e sogni. Bisogna affacciarsi su quel che c’è dietro le statistiche, sul vissuto, sul racconto di chi resta. Bisogna guardare con coraggio, per non dimenticare e per reagire.

Davide Torbidi, segretario generale della FLAI CGIL di Lodi e fotografo, ha cominciato a raccogliere testimonianze, contattando, con il supporto di Camere del Lavoro della Lombardia e Categorie, alcuni infortunati sul lavoro e familiari di caduti sul lavoro. Ha effettuato interviste recandosi nelle case di queste famiglie, cercando di instaurare un rapporto di fiducia con dialogo, sensibilità, partecipazione autentica al loro dolore. Non si entra nell’intimità altrui se non si mette in gioco in primo luogo la propria, se non si è aperti. Ha provato a chiedersi come sono cambiate le vite delle vittime, le loro abitudini  e come questo abbia avuto una ricaduta sulle famiglie. Come vedono il loro futuro? Come sono cambiate le loro condizioni sociali ed economiche? Com’è il rapporto con il proprio corpo duramente colpito?

Il 24 maggio 2019 Daniele era coperto da un lenzuolo bianco. Attorno a quel corpo giravano uomini in divisa, magistrati di turno che svolgevano il sopralluogo per aprire l’inchiesta, qualche curioso. Da quel giorno Daniele, a sua insaputa, era diventato un numero, il 22, perché era la ventiduesima vittima sul lavoro in Lombardia nel 2019. Daniele era un autotrasportatore, guidava un’autobotte per il latte, ha lasciato moglie e figli. Da quella mattina Davide ha maturato una necessità, che tutti i caduti, i feriti sul lavoro non siano mai più considerati numeri. L’esperienza come fotografo lo ha reso consapevole che la forza delle immagini può diventare denuncia, rabbia, grido di dolore e domanda di giustizia. Allora ha scelto di comunicare visivamente alcune storie con immagini crude, reali, che facciano male agli occhi, che restino impresse come un’accusa, accompagnandole con le parole autentiche di coloro che, attraverso questa collaborazione con il fotografo, hanno scelto di amplificarle. Sono storie che tutti dovremmo guardare perché guardare ci rende più maturi, ci interroga in prima persona, ci fa ricordare. Davide quella mattina ha visto Daniele e non ha più dimenticato.

Il reportage

Firmino

Firmino aveva 14 anni quando, utilizzando una fresatrice, vi è rimasto incastrato e ha perso un braccio. Ora ha 74 anni e ha alle spalle un’intera vita vissuta senza una parte del suo corpo. In questi 60 anni ha dovuto lavorare, guidare, giocare a calcio, andare a pesca, adattandosi alla sua condizione.

 

Foto n°1

«Il lunedì vado al lavoro. É un giorno nero perché quasi sempre gli infortuni succedono dl lunedì o nel fine settimana. Succede che accendo la macchina come tutti i giorni e mi butta addosso l’olio. Non puoi fermare la macchina perché se no devi farla ripartire perché è programmata, quindi non fermi. Con in mano uno straccio mi appoggio lì per fare sì che non mi schizzi l’olio addosso e la macchina mi prende la mano, il braccio e me lo strappa. Mancava una protezione e non so spiegare il perché: mi facevano lavorare e io mi sono messo a lavorare»

 

Foto n°2

«Io ho fatto una vita a dimostrare agli altri di essere quello che gli altri pensano che io non sia. Andare a pescare, preparare  la montatura,  i galleggianti, fare tutto… non era per dimostrare che son bravo, era per dimostrare agli altri che sono normale. É una lotta per dire agli altri che non sono diverso. Perché in fondo sei giudicato in modo diverso. Mia moglie Bruna mi ha sposato lo stesso, sapendo che si sarebbe dovuta sobbarcare lavoro in più, anche se io mi arrangio da solo il più possibile. Ci sono cose in cui però lei mi deve aiutare. Sposandomi ha fatto una cosa grande per me».

 

Foto n°3

«Quando sono uscito dall’ospedale, dove ho fatto 20 giorni, mi sono rinchiuso in casa perché ho trovato questo ostacolo: la vergogna, ti vedevano in un modo diverso… me ne sono accorto alle giostre. Sai, tu vai con i due o tre amici che hai alle giostre e lì ti accorgi che ti guardano, qualcuno ti scansa e…ti senti a disagio, quello stesso disagio che provo ancora oggi…beh quello non cambierà mai. Cosa succede? Succede che mi chiudo in casa ed esco il meno possibile. Sono sposato con Bruna da 51 anni e quando ci siamo conosciuti io ero già così»


Gianluca

Gianluca, nel tentativo di domare un incendio in fabbrica, viene centrato in pieno da un arco voltaico, vale a dire una scarica elettrica accompagnata da un’intensa emissione luminosa. L’arco voltaico che colpisce Gianluca ha la potenza di 320 volt. Per permettergli di camminare gli è stato impiantato un cavo d’acciaio elettrostimolato che avvolge i nervi della sua colonna vertebrale.

 

Foto n° 1

«Torno a lavorare dopo sei mesi dall’incidente, ma è un calvario, non riesco più a fare tantissime cose. A guidare faccio sempre più fatica, mi accorgo che mentre sto guidando cerco di schiacciare la frizione e non riesco. Al lavoro cado più di una volta, ma non voglio farmi vedere. Alla fine devo rinunciare e con l’azienda decidiamo che lavorerò da casa. Mi mancano tanto i colleghi, lo stare in mezzo a loro, scambiare quattro parole, ridere e scherzare nella pausa»

 

Foto n°2

«Purtroppo dal giorno dell’incidente prendo la pastiglia per la pressione perché è schizzata. Quindi sono obbligato, prendo sempre delle pastiglie apposta per i problemi alla testa perché devo tenerla sott’occhio. Quindi diciamo che dal giorno dell’incidente sono diventato pastiglia-dipendente. E proprio perchè ormai sono assuefatto alle pastiglie, gli antidolorifici ormai non mi fanno più effetto, ma niente. C’è solo un antidolorifico che mi porta in un altro mondo: la codeina. È l’unica cosa che può fare effetto»

Foto n°3

«In ambulanza ho detto all’infermiera: “Non sento più la parte sinistra del corpo”, vedo che guarda i parametri e parla con la dottoressa. “Non sento più nemmeno la parte destra” e dopo smetto di respirare. Mi ricordo dei gran colpi sul torace, delle sberle in faccia e il momento in cui apro gli occhi sento la dottoressa che dice a quello dell’ambulanza: “ Corri corri codice rosso!”»


Gianni

Gianni ha perso il braccio a causa di una taglierina lineare per lamine in acciaio, quando aveva 34 anni. In seguito a questo incidente non ha più lavorato ma con tenacia, energia e annullando il dolore per quello che gli è accaduto, ha trovato riscatto nello sport e nella cura del proprio corpo.  

Foto n° 01

«Quella macchina era vecchia e non si trovavano più i pezzi di ricambio, in particolare della centralina elettrica, che spesso dava problemi. Un giorno sono salito in ufficio e ho detto che su quella macchina non ci avrei più lavorato perchè sentivo che era pericolosa. La risposta è stata: “ Quella è la porta!”. Così ho deciso che mi sarei trovato un altro posto di lavoro. Qualche settimana dopo è successo l’incidente. Ho ancora impresso nella mente tutto quanto. Quella mattina la centralina faceva le bizze, la macchina andava come voleva e a un certo punto, mentre toglievo la lamina tagliata, la macchina ha ripreso ad andare veloce in avanti e mi ha trascinato dentro il braccio in un secondo. Fortunatamente con l’altro braccio sono riuscito a trattenermi, aggrappandomi a una parte della macchina per non farmi trascinare oltre. Quando, con l’aiuto di qualche collega, è stata tolta la tensione e sono riuscito ad estrarre il braccio ho capito subito che era perso, era tutto tagliuzzato come fosse una battuta di manzo al coltello ed era attaccato solo da lembi di pelle»

Foto n°2

«Ci ho messo un anno ad imparare a fare tutto usando la mano sinistra. Ho iniziato a riempire le giornate allenandomi in bicicletta e in palestra perché volevo tornare a correre, come ho sempre fatto. Mi sono ingegnato per costruire anelli, ganci e corde che mi permettessero di utilizzare tutti gli attrezzi della palestra»

Foto n°3

«Io non volevo partecipare a maratone per disabili fisici. Io volevo continuare a correre come prima. Questo ha richiesto tantissimo allenamento perché senza un braccio non avevo più la postura e l’equilibrio di prima. Con l’allenamento sono riuscito a recuperare il bilanciamento e riempire la zona dove il muscolo non c’è più. Mi sono messo a correre sotto il sole e guardando la mia ombra mi sforzavo di correggere la postura. Oggi sono soddisfatto e partecipo a molte maratone ottenendo risultati molto buoni»


Naser

Naser viene in Italia dalla Serbia come rifugiato in fuga dalla guerra dei Balcani. Lavora regolarmente come carpentiere fino a che, nel 2004, un infortunio sul lavoro cambia la sua vita. Nel 2012 gli è stata finalmente riconosciuta una pensione di invalidità: 253 euro al mese.

Foto n°1

«Dopo l’incidente non riuscivo più a trovare lavoro come muratore. Quando scoprivano che mi mancava un dito non mi volevano. Non mi ha mai più richiamato nessuno. Poi ho lavorato in nero perché devi vivere. Per otto anni ho lavorato a Viggiù, in una villa…facevo manutenzione, giardino, tagliavo erba… mi hanno detto: “Se vuoi lavorare va bene, però in nero”»

Foto n°2

«Il giorno in cui è successo era un sabato mattina. Ero carpentiere, facevo la soletta al primo piano di un edificio del Comune. Erano le 12.15. Il capocantiere mi ha urlato per andare a mangiare, mi sono distratto e non so come mi ha preso la fresa circolare. Mi ha tagliato i tendini, tre dita. Me le hanno ricucite. Per l’infezione ho fatto undici interventi, quattro o cinque con anestesia totale, ma alla fine hanno dovuto togliere il mignolo»

Foto n°3

«Oggi che è un giorno freddo ho dolore alla mano; se esco fuori diventa scura per colpa della circolazione. Anche d’estate ho problemi. Se fanno 35 gradi, ho dolore. Poi mi manca la sensibilità alle mani e le dita non si piegano più bene»


Roberto

Roberto ha scoperto durante un controllo di soffrire di asbestosi, una malattia polmonare cronica dovuta all’inalazione per un lungo periodo di fibre di amianto. Roberto è andato in pensione nel 2000 grazie alla legge sull’amianto per cui gli è stata riconosciuta la malattia professionale. Ora Roberto non c’è più. I medici dicono che la causa più probabile del decesso sia stato il tumore che aveva da qualche tempo e che era indipendente dalle placche pleuriche dovute all’amianto.

Foto n°1

«Ho lavorato in Centrale per 30 anni e lì c’era l’amianto. Quando hanno fatto le lastre a tutti, il problema è saltato fuori anche al mio caposezione. Ci sono stati dei morti. Uno aveva 53 anni, un altro, anche lui 53 anni, mio cugino ne aveva 66 anni, non respirava,  non respirava… e tutti per questa roba qui. É una malattia che ci mette vent’anni… magari uno la prende a 30 e viene fuori a 55. Puoi fare tre controlli e niente… e poi arriva, può saltar fuori da un momento all’altro»

Foto n°2

«Faccio controlli alla Maugeri ogni 2 anni. All’ultimo controllo mi hanno detto che si è rimpicciolito un po’ il polmone. Adesso, dopo 20 anni, ho cominciato a mettere l’ossigeno, fare ossigenoterapia con il bombolone. L’ossigeno lo uso da settembre, a sera 3 o 4 ore, e quando vado in giro porto con me una bomboletta nello zainetto perchè se cammino un po’ il fiato mi va giù di brutto»

Foto n°3

«Ciao Roberto come stai? Volevo proporti un’ultima foto davanti all’azienda dove lavoravi con lo zainetto che porti in spalla quando esci, che ne pensi?», chiede Davide. «Si certo, allora ci vediamo la settimana prossima!». All’ultimo appuntamento Roberto purtroppo non si è presentato. Non ce l’ha fatta.


 

Scheda autore

Davide Torbidi

Davide Torbidi è nato nel 1964 a Casalpusterlengo, in provincia di Lodi e vive a Codogno. E’ stato socio del Circolo Fotografico Milanese e membro nella redazione della sua rivista “il Milanese”. Nel 2012 diventa socio del Gruppo Fotografico Progetto Immagine di Lodi ed entra a far parte del gruppo LudesanLife (rivista fotografica online che raccoglie le storie del lodigiano) in cui vengono pubblicati alcuni suoi reportage. Nel 2013 pubblica il libro fotografico “Storie da bar”. Nel 2019 nell’ambito del Festival della Fotografia Etica partecipa al progetto “Articolo1”, curato dal fotografo Paolo Marchetti. Recentemente è stato uno dei fotografi protagonisti del reportage “Epicentro”, che racconta i giorni terribili del lockdown nella prima zona rossa italiana. Il progetto “Ho visto e non ho più dimenticato” è stato selezionato all’interno della categoria “Spazio No Profit” del FFE 2023 di Lodi.

English version

I have seen and never forgotten

Photographs and text by Davide Torbidi

In Italy one death at work occurs every eight hours, and in Lombardy one every two days. In 2022, in Lombardy 131,692 accidents were reported (+26.84% compared to 2021), 177 of which became fatal, over 697,773 in Italy (+25.67% compared to 2021), 1,090 of which were fatal; 3,231 accidents turned into occupational diseases in Lombardy over 60,774 in Italy.

If we broaden our view, according to EUROSTAT data, over the period 2008-2020 there were more than 48,000 work-related deaths in the European Union, not counting fatal commuting accidents, which are not included in the European statistics. This is namely a daily massacre. But what is beyond numbers? Names and a surnames, people whose lives have been or will be changing forever. Who were they, who are they, why and how did it happen, what are the indelible marks left behind? Without prejudice to the need to have a quantitative dimension to the phenomenon, what cannot fit into a statistic is the pain of people, the upheavals in the lives of the relatives of those who are no longer there or those who have survived, yet are forced to live with a disability. Shattered lives in which projects and dreams crumble. We need to look at what lies behind the statistics, at the experience, at the stories of those who remain. We must look with courage, not to forget and to react.

Davide Torbidi, general secretary of the FLAI CGIL in Lodi and photographer, began to collect testimonies, contacting, with the support of the Lombardy Chambers of Labour and Categories, some people injured at work and relatives of the dead ones.

He conducted interviews by meeting the families, trying to establish a relationship of trust with dialogue, sensitivity, and a genuine participation in their pain. One does not enter into the intimacy of others, but sharing it. Davide find himself asking how the victims’ lives have changed, their habits, and how this has affected their families. How do they see their future? How have their social and economic conditions changed? How is their relationship with their own hard-hit bodies?

On the 24th of May 2019, Daniele was covered by a white sheet.

Around that body stood men in uniform, magistrates on duty carrying out the inspection to open the investigation, a few onlookers. Since that day, Daniele, unbeknownst to him, had become a number, 22, because he was the 22nd work victim in Lombardy in 2019. Daniele was a lorry driver, he drove a milk tanker and left behind a wife and children. Since that morning, Davide has matured a need, that all those killed, injured at work should never again be considered numbers. His experience as a photographer made him aware that the power of images can become denunciation, anger, a cry of pain and a demand for justice. So he has chosen to visually communicate some stories with raw, real images that hurt the eyes, that remain imprinted like an accusation, accompanying them with the authentic words of those who, through this collaboration with the photographer, have chosen to amplify them. These are stories that we should all watch because watching makes us more mature, questions us in the first person, makes us remember. Davide saw Daniele that morning and will never forget.