Guatemala: esercizi di libertà
WJ #109Il nostro crimine è stato nascere poveri. Non sapevamo nulla della politica o delle ideologie, ci dovevamo difendere per il solo fatto di non avere nulla. Petrona
A quasi 25 anni dalla fine della guerra civile la cultura maya guatemalteca cerca di resistere di fronte alle nuove sfide che la tradizione indigena deve affrontare: la memoria storica, la conservazione della propria lingua e della propria spiritualità, la sostenibilità economica e la salvaguardia ambientale.
Allo scoppio della guerra civile guatemalteca, nel 1960, molti indigeni non sapevano parlare in spagnolo ma solo il loro dialetto maya. Quando si trattava di reclamare i propri diritti, insomma, non erano nemmeno capiti. “Ci affidammo a un avvocato, eravamo 65 famiglie che chiedevano di riavere le loro terre e di poter continuare a fare il loro lavoro”. A parlare è Pedro Ramirez Tiney, portavoce del comitato dei tuleros di Santiago, la vivace cittadina adagiata alle pendici del vulcano Atitlán, sulle sponde dell’omonimo lago. Da secoli la loro sopravvivenza è legata a una pianta acquatica, il tule, che cresce solo sulle sponde del lago. Dalla lavorazione e dall’intreccio dei suoi fusti essiccati si ricavano tappeti di varie dimensioni, molti dei quali usati come materassi dalla popolazione locale. “La dittatura voleva eliminarci colpendo la cosa più preziosa che abbiamo: la nostra cultura e le nostre tradizioni” racconta Pedro, fiero del fatto che i tuleros siano stati in grado di resistere. “Oggi con il nostro tule cerchiamo anche di proteggere un intero ecosistema: la pianta infatti è un filtro verde efficacissimo nel trattenere il fosforo portato dal vulcano e permette all’acqua del lago di essere più sana, priva di cianobatteri e di sostanze inquinanti. Fino a qualche anno fa il governo, invece, pensava invece che fosse solo una pianta silvestre completamente inutile.”
Viaggiare per il Guatemala significa raccogliere decine di testimonianze come questa. Ma il Paese è un puzzle culturale da ricostruire pezzo per pezzo, incontro dopo incontro. Dalle fincas di caffè ancora in mano allo sfruttamento delle multinazionali a quelle tornate finalmente in mano ai locali; dalla riscoperta della spiritualità maya all’invasione delle chiese evangeliche; dalla produzione a chilometro zero alle esasperate monoculture della frutta che tanta parte hanno avuto negli equilibri politici del Paese.
Punto di arrivo (o di ripartenza), un minuscolo punto sulla carta geografica: Nuevo Horizonte, nella vasta e pianeggiante regione del Petén. È una comunità di ex-guerriglieri che alla fine della guerra civile, rimasti senza terra e dimenticati dal governo, hanno dato avvio a una cooperativa che oggi si autosostiene grazie all’agricoltura, all’allevamento, a piccoli progetti di imprenditoria e anche grazie al turismo. Basta pranzare nel piccolo ristorante comunitario o farsi accompagnare da Roni e Raul nella selva dove per anni si sono nascosti, per conoscere sulla storia del Guatemala molto più di quello che un libro di scuola possa mai raccontare. Tra le fondatrici della cooperativa c’è anche Petrona. Le sue parole, dolci e misurate, riassumono con una forza devastante ciò che è toccato a migliaia di indigeni: “Abbiamo cresciuto i nostri figli nella selva, eravamo contadini come siamo oggi, vivevamo nelle nostre piccole e umili case fino quando ci siamo trovati costretti a scappare. Ci hanno accusati di essere sovversivi comunisti ma non sapevano nemmeno cosa fosse il comunismo. Ci uccidevano peggio che animali perché eravamo poveri e non servivamo.” Oggi a Nuevo Horizonte l’istruzione e le cure mediche sono gratuite. Si insegna l’equità di genere, la coscienza di classe, il rispetto della natura, le buone pratiche per costruire un’economia a misura d’uomo. Ci si esercita, insomma, alla libertà.