Globesity

WJ #103

“Mangi frutta durante il giorno?”,  “Certo, bevo succo di frutta”, risponde Grace, una donna obesa che vive a Capetown, in Sud Africa. Come lei, due terzi dei sud africani sono in sovrappeso, e tra questi il 69,3% sono donne. In Africa, secondo uno studio dello Human Research Council, l’88% della popolazione ha come ideale di bellezza un corpo grasso, e non pensa che il proprio stile di vita non sia salutare.

E’ da qui che parte ‘Globesity’, il reportage di Silvia Landi, che non ha deciso di analizzare l’obesità da un punto di vista clinico-sanitario, ma bensì come fenomeno sociale e culturale.  Una malattia che, da quando è scoppiata la globalizzazione, è diventata anche una condizione legata alla povertà, dove lo scarso accesso a un cibo ‘di qualità’ ha cambiato radicalmente lo stile di vita di alcune nazioni a medio-basso reddito. Niente Stati Uniti quindi, da sempre simbolo nell’immaginario collettivo di ricchezza e abbondanza; ma Messico, Brasile e Sud Africa, una tra le nazioni con la più alta concentrazione di fast food e, allo stesso tempo, uno scarso potere d’acquisto verso il cibo sano/di qualità. In Messico invece, è molto più facile trovare una bottiglia di Coca Cola che un bicchiere d’acqua, a causa delle politiche commerciali aggressive delle grandi multinazionali (tra cui Femsa, appaltata dalla stessa Coca Cola) che utilizza l’acqua potabile per realizzare la bevanda gassata, lasciando senza risorse gli abitanti. Sempre in Messico, il diabete 2 è così diffuso tra i bambini che il governo ha imposto due tasse per tentare di arginare il problema: una sulle bevande zuccherate e una sui ‘cibi non essenziali’, ossia quelli con un’elevata concentrazione di grassi saturi, zucchero o sale.

Come avverte il World Health Organization, in questi paesi ma non solo, un problema della nostra società è quello del ‘doppio fardello della malnutrizione’, ossia la coesistenza di persone che muoiono di fame e di altre che consumano cibo in eccesso. Una transizione causata non solo dal passaggio da una dieta basata su grandi quantità di carboidrati, verdure e cereali a una con alti livelli di grassi animali e concentrazione di zuccheri, ma anche da uno stile di vita sedentario, la mancanza delle etichette con i valori nutrizionali sui prodotti, e la dislocazione degli alimenti autoctoni in favore dell’agricoltura intensiva.

Intervista a Silvia Landi di Sara Forni

Ogni volta che vado a fare la spesa mi sento come un tossico che cammina in un supermercato pieno di droghe, soltanto che il cibo è qualcosa di socialmente accettato”. È grazie alla storia di Gianni, 47 anni e una vita passata a combattere contro l’obesità, che Silvia Landi, una dei cinque fotografi vincitori di Closer con il suo progetto ‘Globesity’, si è avvicinata al tema dei disturbi alimentari. Le abbiamo chiesto di raccontarci alcune delle storie che hanno dato vita alle sue fotografie, tra Italia, Messico, Sud Africa e Brasile e che, nel 2017 l’hanno portata a vincere il Food Sustainability Media Award, promosso dal Barilla Center for Food&Nutrition e Reuters.

Perché hai deciso di approfondire il tema dell’obesità?

“Tutto è iniziato quando ho incontrato Gianni. Volevo fare un reportage a lungo termine e mi interessava il tema dell’obesità dal punto di vista psicologico, entrando nella vita quotidiana delle persone. Almeno in Italia, si vedono molti progetti fotografici sull’anoressia, mentre l’obesità è poco raccontata, perché siamo abituati a considerarlo un problema soprattutto americano, noi abbiamo la dieta mediterranea, stiamo bene. Ma non è così”.

Qual è la storia di Gianni?

“Ho incontrato Gianni vent’anni fa, era un ragazzone sì, ma non obeso. Poi, quando sono venuta a sapere che era caduto in questi problemi ho deciso di seguirlo, e da lì sono passati quattro anni. Il suo desiderio era che gli altri capissero che la sua non è una condizione facile da vivere e che sentirsi ripetere ‘mettiti a dieta che sei obeso’ non è la soluzione che cerca chi vive questo problema. Voleva essere accettato socialmente, perché non è solo una questione di peso e di salute (Gianni è arrivato a pesare più di 300 kg, ndr), ma anche psicologica e traumatica a cui si aggiunge anche una sensazione di isolamento. Insomma, è un cane che si morde la coda: più ingrassi più diventi depresso, più diventi depresso più mangi. Per lui ogni cosa era un problema: trovare lavoro, andare al cinema, prendere un aereo o un treno. Finalmente, adesso ha deciso di farsi operare e piano piano sta riprendendo in mano la sua vita”.

Cosa ti ha spinto poi a passare dall’Italia all’estero? E perché hai scelto paesi che normalmente non sono associati a ricchezza, abbondanza e obesità?

“Dopo Gianni, mi sono documentata per diversi anni finchè nel 2011 uscì un rapporto dell’Agenzia mondiale della sanità che raccontava che l’obesità sta diventando un problema globale, anche in paesi a basso-medio reddito e la cosa mi incuriosì molto. Nella nostra cultura colleghiamo l’abbondanza di cibo alla ricchezza, ma invece nei paesi ‘poveri’ sono proprio le persone che hanno meno possibilità di accedere a cibi di qualità che, quindi, tendono agli accessi perché più semplici di reperire”.

Però queste due donne sembrano a loro agio con la loro condizione fisica, a differenza di Gianni. Com’è la situazione in Sud Africa?

“Il Sud Africa è un paese molto interessante da questo punto di vista perché è considerato uno dei paesi con il più grande squilibrio a livello nutrizionale, nel senso che mentre in Africa è considerata una delle nazioni in via di sviluppo mantiene comunque altissime fasce di povertà. Ho scattato questa foto a Cape Town dopo aver incontrato Grace per strada che, ovviamente, stava facendo uno spuntino con salsicce alla brace. Mi colpì il fatto che lei, a differenza di Gianni, era una persona molto considerata nel suo quartiere, molto attiva e ben voluta. Lì manca una vera e propria cultura verso una dieta salutare, ad esempio, quando le chiesi se mangiava frutta e verdura quotidianamente, mi indicò una bottiglia d’arancia. Sono trappole alimentari, in Sud Africa, così come in tanti altri paesi,  è difficilissimo trovare acqua potabile o la corrente elettrica, mentre comprare una bottiglia di una qualsiasi bevanda zuccherata costa pochissimi dollari. Dove non arrivano i servizi base, arrivano invece le grandi industrie del food, che considerano questa nazioni ‘mercati ancora da conquistare’. In più,  c’è anche un problema culturale. Essere grassi è considerato bello, sexy è un canone di bellezza, se sei bianco e magro per loro è come se fossi malato, quindi non si ha la volontà di dimagrire”.

Poi sei andata in Messico, non proprio la prima nazione a cui si pensa quando si tratta di disturbi alimentari.

“Credo che la foto di Antonia davanti al frigo pieno di junk food sia l’esempio perfetto di quello che è un ambiente obesogenico. Quasi tutta la sua famiglia ne soffre: sua nipote, sua figlia che si è anche già operata, sua sorella, costantemente monitorata dal medico per questi problemi. Quando vivi in queste situazioni è come se tutta la famiglia ne venisse risucchiata. Il Messico è un paese che ha tassi di obesità quasi pari a quelli degli Stati Uniti, ed è stato il primo paese al mondo ad applicare la sugar tax. Prima di quel momento, le grandi multinazionali come Coca Cola e Nestlè vendevano i loro prodotti anche dentro alle scuole, creando livelli di dipendenza altissimi”.

Ma quali sono le condizioni sanitarie di questi paesi e cos’è successo, invece, in Brasile?

“Mentre in Messico il sistema sanitario è simile al nostro, in Sud Africa e in Brasile devi avere l’assicurazione sanitaria, che ha costi molto elevati. Il Brasile ha avuto un boom economico, e in quel momento il governo ha fatto una serie di agevolazioni fiscali per aprire nuove aziende, molti lavoravano ed era più semplice potersi operare. Poi è arrivata la crisi economica e molte delle persone che erano state seguite poi hanno perso l’accesso alla sanità (l’assicurazione si aggira intorno ai 400 dollari al mese, ndr) e così tutto è stato vano, anche perché per tornare in salute non basta un’operazione, bisogna essere seguiti, a volte tornare sotto i ferri per togliere la pelle in eccesso. L’obesità è un po’ come l’alcolismo, chi ne soffre se lo porta dietro un po’ tutta la vita e deve starci attento, ma se non hai i mezzi per finire le cure, l’operazione non è servita a niente. Molte persone sono finite in un limbo senza via d’uscita”.

Il reportage

Scheda autore

Silvia Landi

Silvia Landi è una fotogiornalista freelance con base a Roma, Italia.
Ha conseguito una laurea in psicologia e un master in psicoterapia e ha lavorato come psicoterapeuta per 12 anni prima di iniziare la sua carriera come fotografa.
Nel corso degli anni ha focalizzato i suoi progetti di ricerca personale e documentari principalmente questioni antropologiche e su tematiche sociali con una particolare attenzione alle conseguenze e ricadute psicologiche sulle persone.
Attualmente, sta lavorando a diversi progetti a lungo termine sul tema dell’obesità e della globalizzazione del cibo in Italia e all’estero.
I suoi lavori sono stati pubblicati sulle principali testate nazionali e internazionali quali La Repubblica, Gioia, Polka, Il Corriere della Sera, La Stampa, Aftenposten, De Spiegel online, Days Japan, BCFN magazine, 24h01 la revue, Witness Journal, Yahoo News, R0pmagazine, Narratively etc.  sono stati esposti e proiettati in numerosi festival e premiati con numerosi riconoscimenti internazionali quali il Food Sustainability media award della Thomson Reuters Foundation e Barilla Center for Food and Nutrition. Attualmente sta lavorando come fotografa freelance e come consulente per alcune ONG e fondazioni italiane.

English version

The paradox of excess – Globesity

 

Photography by Silvia Landi

Story edited by Sara Forni

 

“Do you have fruit throughout the day?”, “Of course I do, I drink fruit juice”, replies Grace, an obese woman who lives in Capetown, South Africa. Like her, two-thirds of South Africans are overweight and, among them, 69.3% are women. According to a Human Research Council study, for 88% of African population a fat body represents the ideal of beauty and they do not perceive their life style as unhealthy.

This is the starting point of ‘Globesity’, the report carried out by Silvia Landi, who decided to analyse obesity not from a clinical point of view but as a social and cultural phenomenon. A disease which, since globalization has exploded, has become also a condition linked to poverty, as the poor access to ‘quality’ food has radically changed the life style of some middle- and low-income nations. Not the United States, so, always regarded as a symbol of richness and wealth; but Mexico, Brazil and South Africa, one of the countries with the highest concentration of fast-foods and, meanwhile, with low purchasing power vis-à-vis healthy/quality food. In Mexico, on the other hand, finding a bottle of Coke is easier than finding a glass of water, due to the aggressive trade policy of multi-national companies (such as Femsa, contrated by Coca-Cola itself, which uses potable water to realize the sparkling beverage, leaving the inhabitants without resources. Always in Mexico, type 2 diabetes is so widespread among children that the government levied two taxes in attempting to contain the problem: one on sugary drinks and the other on ‘non-essential foods’, i.e. those with a high concentration of saturated fat, sugar, or salt.

As the World Health Organization warns, in these countries, but not only, one of the problems of the society is that of the ‘double burden of malnutrition’, i.e. the coexistence of people dying of hunger and people consuming surplus food. A transition provoked not only by the shift from a diet based on huge quantities of carbohydrates, vegetables, and cereals to one with high levels of animal fat and sugars; but also by a sedentary lifestyle, the lack of labels with nutritional values on the products, and the dislocation of local food in favour of intensive agriculture.