Finchè memoria non ci separi

WJ #127

Hanno sempre litigato. Se lei aveva caldo e accendeva l’aria condizionata, lui aveva freddo. Lui russava e lei soffriva d’insonnia. Se lui voleva mangiare qualcosa, lei non lo digeriva. Lui era cieco per la maculopatia e lei chiudeva tutte le imposte per non fare entrare la luce e quindi secondo lei il caldo. Lei aveva la voce bassa e lui era sordo, ma non voleva mettersi l’apparecchio perché non voleva sentirla. Nonostante questo dipendevano l’uno dall’altra. Di notte quando mio padre urlava di paura era lei che cercava, benché ci fosse una badante notturna seduta di fianco a lui. Quando per evitare che cadesse, lo abbiamo messo in un letto con le sponde, lei le scavalcava per dormire abbracciata a lui. Quando mio padre era ricoverato per polmonite ed era alla fine della sua vita, pretendeva di essere portata tutti i giorni in ospedale e una volta che non abbiamo potuto accompagnarla, ha fatto l’autostop.

L’ospedale è a Crema a 10 km da Castelleone e lei camminava con le stampelle solo in casa. Quando è morto è entrata in uno stato di profonda depressione, non mangiava e piangeva in continuazione. Temevano di perdere anche lei. Poi le volontarie dell’Alzhaimer caffè sono riuscite con l’affetto e le attenzioni a richiamarla alla vita. Un anno dopo ha incominciato ad andare al Centro Diurno e si è così assestata nella sua nuova condizione di vedova, ed era serena, dolce, si sentiva amata. L’isolamento per l’emergenza Covid19, la chiusura di tutti i luoghi che lei frequentava, ha accelerato il processo degenerativo della malattia. Ora non chiede più di essere portata al cimitero, non ha più memoria di nulla, non ha più memoria di lui. Un giorno ha domandato a mia sorella: “mio marito è morto o se ne è andato?”

Nel dicembre 2017 mio padre è caduto e ha battuto la testa per portare fuori la pattumiera, come le era stato richiesto da mia madre. Era buio, aveva piovuto e lui era semicieco, ma se non lo avesse fatto, sarebbe uscita mia madre, che camminava a fatica. Da allora ha incominciato progressivamente a morire, manifestando mano a mano i segni di una demenza, di cui non ci eravamo accorte ne io ne mia sorella. Pensavamo che quella malata fosse mia madre, che aveva disturbi comportamentali, deliri e confusione. Ho visto soffrire mio padre per la perdita della sua autonomia, poi della sua dignità, e poi più nulla, poi è precipitato nel vuoto della malattia. Non mangiava, non dormiva, ma se aveva bisogno urlava sempre il nome di mia madre. Qualche mese dopo la sua morte ho fotografato alcuni oggetti che gli appartenevano. Avevo bisogno di ricordare, di salutarlo.

Con mia madre ho lottato per cercare di dare un senso alla sua ultima stagione della vita. Alla morte di mio padre si stava lasciando andare, non aveva più ragione di vivere. Aveva avuto con mio padre un rapporto ossessivo, litigioso, geloso e non era certamente felice, ma senza di lui c’era il vuoto. Ringrazio le volontarie dell’Alzheimer caffè di Castelleone che mi hanno aiutato a tirarla fuori dalla depressione. Una volta alla settimana facevano giochi, esercizi di memoria con le fotografie, ballavano, cantavano con il karaoke, cucinavano, piccoli lavoretti di cucito, ginnastica dolce. Una volta alla settimana cercavo di darle una nuova ragione per vivere: essere in compagnia e non più sola in casa, essere apprezzata, coccolata.

Con la frequentazione al Centro Diurno sono finalmente riuscita, non a guarirla, ma a permetterle di vivere serenamente nonostante la sua malattia. Poi è arrivato il Covid19 e ha chiuso tutto. In questi ultimi mesi la mancanza di stimoli, di socialità, di esercizi cognitivi e fisici, l’hanno fatta progredire verso la totale perdita di autonomia. E’ ancora serena, perché non le manca l’affetto, ma non ha più memoria della sua vita presente e passata, della sua famiglia, le sue sorelle, le nipoti, nemmeno di colui che piangeva “vita mia”. Fotografie realizzate dal 2018 al2020.

Il reportage

Scheda autore

Patrizia Riviera

Finchè memoria non ci separi

Sono nata a Milano nel 1956 e dal maggio del 2000 vivo a Bergamo. Sono principalmente una fotografa fine art. Fotografo per descrivere il lato emotivo della realtà, più che quello oggettivo, e uso la fotografia per raccontare una storia personale, intima. Negli ultimi anni le mie immagini hanno come soggetto la Terra, che fotografo con un senso di nostalgia e di perdita, di rispetto e stupore. Ho iniziato a fotografare nel 1992 frequentando la scuola “Donna Fotografa” di Giuliana Traverso. Tra i progetti personali realizzati: Unsure Feeling, Close-Ups, I Give up, Eden. Libri di reportage: “Liberamente in Patagonia”, “Naturalmente”, “L’Inferno degli angeli”, “Teatro Stalla”. Dal 2003 conduco laboratori espressivi, educativi e terapeutici di fotografia.

Fotocamera: Fujifilm XT-20
Obiettivo: Fuji XF 18-55