Consapevolezza

WJ #93

“La fotografia è una cosa semplice. A condizione di avere qualcosa da dire.” Sono queste le parole (prese in prestito da Mario Giacomelli) con cui Alessandro Grassani si è presentato al pubblico che ha preso parte alla prima delle serate che Sony e Witness Journal hanno organizzato alla Villa Reale di Monza, dove fino al 29 ottobre sono stati in mostra gli scatti dei Sony World Photography Awards. Un incontro dedicato alla fotografia documentaria e nello specifico all’ideazione e alla realizzazione di un reportage. Grassani ne è uno specialista di tutto rispetto: diplomato presso l’Istituto Riccardo Bauer di Milano, nella sua carriera ha collaborato con testate come il New York Times, L’Espresso, Sunday Times e organizzazioni internazionali come Doctors of the World e International Organization for Migration (IOM). Ha vinto, tra gli altri, il Premio Internacional de Fotografia Humanitaria Luis Valtueña, il Sony World Photography Awards e il PX3 International Awards ed è ambasciatore Sony dal 2015.

La fotografia dal forte impegno sociale diventa da subito la sua vera missione. Gira il mondo, è presente in zone calde e anche pericolose, vede velocemente cambiare il senso di una professione come quella del fotoreporter: “I primi testimoni di quello che succede nel mondo non sono più i fotografi” ammette candidamente. “Oggi sono le persone normali, che con un telefonino possono arrivare prima di qualunque professionista. Ricordo quando nel 2009 ero in Iran per le elezioni che avrebbero portato al potere Ahmadinejad. Molti oppositori scesero in piazza e ci furono scontri violenti. Noi fotografi eravamo relegati in albergo con il divieto assoluto di uscire. Fu così che l’immagine simbolo della protesta (una ragazza colpita alla testa da un proiettile) fu scattata da un manifestante che poi la mise in rete. Il giorno dopo la pubblicarono tutti i giornali del mondo. Era la prima volta che succedeva una cosa del genere.”

Asia, Mongolia, 27/03/11. A view of Ulaan Baator over the shoulder of a slumbering drunk. Alcoholism is a huge problem in the city, home to almost half of Mongolia’s people. The capital’s population has doubled in the past two years, expanding outward in a haphazard sprawl, and many inhabitants live in slums known as the “Gher District.” High levels of unemployment and poverty await herders who abandon rural areas and arrive in the city, illiterate and untrained in any skills necessary for urban jobs. Only in 2010, during one of the harsher Dzuds, more than 8 million sheep, cows, horses and camels died in Mongolia so 39,000 herdsmen had no choice but to migrate towards Ulan Bator.

Da qui per Alessandro la necessità di cambiare prospettiva e ripensare il proprio lavoro: dalla cronaca a progetti di più ampio respiro che potessero interpretare la realtà invece di documentarla. Dall’evento alle dinamiche, dal fatto al fenomeno, alle sue cause e alle sue conseguenze. “In un mercato dove non c’è più spazio per i grandi reportage, i tempi lunghi permettono al fotografo di lavorare a fondo per trovare finanziamenti. Questo arco di tempo maggiore lascia soprattutto che egli metabolizzi la storia che ha scelto, la approfondisca, si documenti. Faccia insomma un lavoro di ricerca che vada al di là di quello che è sotto gli occhi di tutti ma che componga anche scenari futuri.”

Il risultato di questa nuova prospettiva progettuale è un lavoro durato anni e chiamato “Environmental Migrants: the last illusion”. Iniziato nel 2011 e sviluppato tra Mongolia, Bangladesh, Kenya e Haiti, racconta su scala globale il fenomeno delle migrazioni causate dai cambiamenti climatici, creando al contempo un link tra queste alterazioni e l’antropizzazione del territorio. “Ho contattato agenzie e organizzazione che si occupano di studiare questi fenomeni e insieme a loro ho strutturato questa idea. La cosa interessante è che queste migrazioni di carattere ambientale non avvengono tra stato e stato ma all’interno di uno stesso paese”. Un lavoro con un punto di partenza atipico che tenti di andare contro alcuni luoghi comuni come quello per cui si associa ai cambiamenti climatici solo l’idea di innalzamento delle temperature e scioglimento dei ghiacci. “Sono rimasto colpito dal fatto che in Mongolia i cambiamenti climatici hanno portato negli ultimi anni inverni rigidissimi. La metà degli abitanti si ritrova a vivre nella capitale Ulan Bator che ha visto raddoppiare il numero dei propri cittadini. Ho raccontato la storia dei pastori mongoli che, sconfitti dal gelo che li ha privati di quasi tutto il bestiame, si spostano con la loro tenda ai margini della città.”

Haiti, Port au Prince, Citè Soleil, Village des Rapatriès. 2015. A woman standing outside her shack in the slum area of Village des Rapatriès. As sea level rises Village des Rapatriès is often flooded and people are forced to live in seawater. Climate change and deforestation dramatically reduced farmland in the Haitian countryside and led environmental migrants to emigrate to urban areas with the consequent wild urbanization and the development of slums areas such as Village des Rapatriès which is just next to the seashore and where people escaping from extreme weather condition in the countryside end up facing the same situation, if not worst, in Port au Prince. In fact, the vulnerability of the country to natural disasters has triggered waves of internal migration from rural to urban areas. In Port-au-Prince, the country’s capital and largest city, half of the residents were not born there and the overcrowded city continues to serve as the main destination for thousands of environmental migrants every year. Haiti is considered to be by the United Nations between the countries most at risk by climate change.

Da lì in Bangladesh, dove i tifoni e le piogge stanno rendendo invivibili le condizioni di vita di milioni di persone; poi in Kenya dove il problema è invece opposto: nella regione del Turkana si combattono guerre per avere accesso all’acqua. “Infine, per un senso di completezza geografica, ho aggiunto un quarto capitolo sull’America centrale per documentare gli effetti dei cicloni su un Paese povero come Haiti.” Un aspetto interessante che Alessandro tiene a sottolineare è che in lavori come questo il fotografo ha anche un altro ruolo, ossia quello di far prendere coscienza agli stessi interessati della loro condizione. “Le donne del Bangladesh o i pastori della Mongolia non sanno cosa sia un migrante ambientale. Spiegando il mio lavoro ho spiegato loro questo fenomeno e li ho aiutati a sentirsi parte di un fenomeno su scala globale che essi nemmeno immaginavano.” Non esiste dunque reportage se non c’è relazione: “Quando mi ci trovo di fronte, voglio che il soggetto mi scelga come fotografo. Non mi impongo su di lui ma desidero che, prendendo consapevolezza dei motivi che mi spingono a fotografare, egli sposi il mio intento. Durante gli anni in cui ho lavorato a questo lungo progetto è capitato moltissime volte che, vedendomi arrivare con la macchina fotografica al collo, le persone mi chiedessero dei soldi. Ogni volta mi sono fermato e ho cercato di spiegare in modo molto chiaro quello che stavo facendo e perché: chiedevo loro di capire che alcune cose si possono cambiare anche grazie alla fotografia.” Uomini e donne di ogni parte del mondo, il singolo e il suo legame con processi antropici e naturali di portata universale, la consapevolezza del proprio ruolo e un preciso senso di realtà su cui basare la propria etica personale: lontani da retorica e sensazionalismi, gli scatti di Grassani puntano a un equilibrio possibile tra bellezza e autenticità. “A proposito del patto di fiducia tra il fotografo e chi osserva le sue fotografie” conclude Alessandro con fermezza. “Questa fiducia va guadagnata col tempo, è un lungo percorso di credibilità che investe la sua intera professione e che non può ammettere compromessi. Il segreto è scegliere la verità, sempre.”

Scheda autore

Alessandro Grassani