Belgrade waterfront
WJ #91Un faraonico progetto portato avanti dal governo serbo e dalla società immobiliare araba Eagle Hills, un’opera che rischia di alterare la vita degli abitanti locali e dei migranti in sosta sulle rive del fiume Sava
Solo a pronunciarla, la parola Balcani evoca contraddizione, commistione, incontro. Se esiste un posto nell’immaginario comune il più lontano possibile dallo sfarzo di Dubai, questo è la penisola balcanica. Eppure è proprio a Belgrado, capitale della Serbia, che il governo locale e la società immobiliare Eagle Hills, degli Emirati Arabi Uniti, hanno raggiunto un accordo per la realizzazione di un faraonico progetto di riqualificazione urbana, Beograd na vodi – Belgrade Waterfront, che prevede la costruzione di otto alberghi, appartamenti di lusso ed un centro commerciale che ambisce ad essere uno tra i più grandi mai realizzati. Il tutto all’ombra di una torre in vetro e acciaio che, una volta completati i lavori, sarà tra le più alte d’Europa.
Un ossimoro architettonico, ma più in generale una contraddizione etica e sociale, se si considera che questi due chilometri quadrati di scintillio e tecnologia prenderanno forma nel quartiere di Savamala, area sulle rive del fiume Sava, ora puntellata di scambi ferroviari in disuso, binari morti, rottami di auto di fabbricazione sovietica e scheletri di palazzi rivelatori di un recente passato fatto di ruggine e gelo. Dopo la svalutazione del dinaro, che nei primi anni del 2000 ha portato ad un vertiginoso aumento dell’inflazione, sbriciolando la già gracile economia locale, si è assistito ad una faticosa risalita per una capitale di un milione e duecentomila abitanti. Alla volontà di ripresa, si è aggiunta l’ambizione di diventare, “da grande”, una metropoli di respiro europeo, superando i decenni di dittatura comunista, la guerra e le bombe, i nazionalismi, per aprirsi -infine- al mondo.
Il prezzo da pagare per questa ambizione occidentale è molteplice, ad iniziare dalla spersonalizzazione del quartiere di Savamala, fucina di artisti e creativi della città, che rischia di venir divorato da ruspe e cantieri, anche se i progettisti rassicurano che l’anima pittoresca e bohémien del quartiere non sarà toccata dal resort. Una coerenza nell’incoerenza tutta balcanica, dove in una capitale in cui si vive mediamente con meno di cinquecento euro al mese, si costruisce senza badare a spese. Belgrado è questa, piaccia o no, alfiere irrequieto della Serbia e dei Balcani. Una metafora di contrasti e contraddizioni che si alimenta in ogni periodo storico, quasi non potesse farne a meno: un accostamento di culture, idee, etnie, religioni ed essenze differenti, quando non opposte. Una coesistenza non armonica, almeno non come era -o come ci era descritto- il Libano del dopoguerra; piuttosto una commistione spigolosa e aspra che, tuttavia, lascia trasparire un certo fascino e una certa forza. Oggi questa regione, che con un occhio guarda ad Occidente e ai dollari degli emiri, si trova a dover fronteggiare una nuova fase storica: quella delle migrazioni lungo la rotta balcanica. Dopo il muro sui confini costruito dall’Ungheria di Orban, cui ha fatto seguito la chiusura della Croazia, la Repubblica Serba – ed in particolare la capitale – è diventata un punto d’approdo per chi scappa dalla fame e dagli integralismi.
Si parla di un milione e duecentomila persone, secondo i dati dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, in maggioranza Afghani e Pakistani arrivati nella capitale serba dopo un estenuante viaggio attraverso Iran, Turchia, Grecia, Bulgaria e Macedonia.
Alloggiano in uno dei campi profughi più affollati del vecchio continente, senza acqua calda né servizi sanitari. Lo scorso inverno erano tra i binari e capannoni vicini al fiume Sava, a maggio sono stati sgomberati per consentire l’inizio dei lavori per la costruzione del Waterfront. Dalla miseria al lusso del superfluo, quale ennesima dimostrazione dell’estrema coerenza dell’incoerenza.