Anywhere and everywhere

WJ #138

Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora io reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia patria, gli altri i miei stranieri.

Lorenzo Milani

L’Eid al-Fitr, la festa di fine Ramadan, inizia a casa di Lorena e Gian Andrea mentre viene approntato il materiale per le medicazioni. A metà pomeriggio ci dirigiamo alla “piazza del mondo” con le scarpe e gli indumenti donati dal gruppo “We Will Make It Happen” e dal Magazzino Resistente. Lorena trasporta l’immancabile carrello verde contenente parte del materiale sanitario.

Familiarizzare con gli afghani presenti è spontaneo: dopo una foto di gruppo mi invitano a festeggiare con loro l’Eid. Conosco il posto dove attendono le pratiche per l’asilo: è il Silos, immenso edificio a tre piani costruito a metà dell’Ottocento pochi anni prima della Stazione Centrale di Trieste.

Vi sono spazi ove le democrazie perdono i loro principi fondanti basati sul rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Il Silos è uno di questi. Come tutta la città, è il luogo perfetto per riconoscere le tracce delle tragedie che hanno solcato il ventesimo e ventunesimo secolo. Da qui, nel dicembre 1943, partì il primo treno per Auschwitz; dopo la guerra fu uno dei luoghi in cui furono ammassate le persone in fuga da Istria e Dalmazia. Qui oggi si rifugiano i migranti sopravvissuti al game — beffardo nome che viene dato dai transitanti al mortale tentativo di attraversamento delle frontiere lungo la rotta balcanica. I suoi grandi archi sembrano costruiti per far passare la gelida bora; il tetto sembra bruciato per far gocciolare la pioggia; i rovi dell’enorme piazzale paiono cresciuti per proteggere i ratti.

Ci accampiamo a preparare un qorma afghano, uno spezzatino di pollo speziato; è buio pesto quando il fuoco è ormai prossimo a spegnersi. Torno alla piazza; Lorena e Anita sono ancora lì a curare flittene, ulcere e distorsioni degli ultimi che, spesso dopo decine di fallimenti, sono riusciti a superare il confine.

Questi corpi sono i risultati visibili di vent’anni di guerra in Afghanistan. 70.000 civili uccisi, nove milioni di profughi e il  92% di persone denutrite sono incarnati in quei piedi sofferenti che, non potendo pagare per un passaggio, hanno lasciato la Grecia a piedi per entrare in Serbia e Bosnia-Erzegovina o che, in alternativa, hanno raggiunto l’Italia dopo aver attraversato Bulgaria e Romania.

Alla “piazza del mondo” l’atmosfera è vivace. C’è chi aiuta i volontari dell’associazione “Linea d’ombra”, chi gioca a volley e chi offre dolci arabi. Sono luoghi così, luoghi assenti dalle cartografie ufficiali ma presenti ovunque, che ci ricordano che l’umanità non finisce mai di testimoniare una assurda, intollerabile violenza sofferta e, contemporaneamente, un’indistruttibile solidarietà resistente.

Il reportage

Scheda autore

Marioluca Bariona

Marioluca Bariona ha vissuto a Torino, Ventimiglia e Genova, dove si è laureato in scienze infermieristiche. Come attivista sociale, usa la fotografia come mezzo per sensibilizzare sulle questioni sociali e ambientali. Predilige un linguaggio fotografico concreto volto a svelare una realtà collettiva, corale, in cui le identità si fondono per mostrare valori, esigenze, bisogni comuni.

Fotocamera: Canon EOS R6; iPhone 12
Obiettivo: 35mm f/1,8, 16mm f/2,8

English version

Anywhere and everywhere

If you have the right to split the world into Italians and foreigners then I claim the right to split the world into dispossessed and oppressed on the one hand, privileged and oppressors on the other. The first are my homeland; the others, my foreigners.

Lorenzo Milani

Photo by Marioluca Bariona 

Text by Marioluca Bariona e Stefano Pontiggia

Eid al-Fitr, the end-of-Ramadan feast, begins at Lorena and Gian Andrea’s house while dressing materials are being prepared. Mid-afternoon, we head to the ‘World Square’ with shoes and clothing donated by the “We Will Make It Happen” group and the Resistant Warehouse. Lorena carries the ever-present green cart containing some of the medical supplies.

Becoming familiar with the Afghans present is natural: after a group picture, they invite me to celebrate Eid with them. I know where they wait for asylum paperwork: the Silos, an immense three-story building built in the mid-Nineteenth century a few years before the Trieste Central Station.

There are spaces where democracies lose their founding principles based on respect for human rights and fundamental freedoms. The Silos is one of these. Like the entire city, it’s the perfect place to recognize the traces of the tragedies that have plowed through the 20th and 21st centuries. From here, in December 1943, the first train left for Auschwitz; after the war, it was one of the areas where people fleeing Istria and Dalmatia were herded. Here today, migrants who survived the Game – mockingly named by transients after the deadly attempt to cross borders along the Balkan route – take refuge. Its grand arches look as if they were built to let the icy Bora wind pass through; the roof looks as if it was burned to let the rain drip down; the brambles in the vast yard seem to be there to protect the rats.

We make camp preparing an Afghan qorma, a spicy chicken stew; it’s pitch dark when the fire is close to going out. I return to the square; Lorraine and Anita are still there, tending to the phlyctenes, ulcers, and sprains of the last ones who, often after dozens of failures, have made it across the border.

These bodies are the visible results of two decades of war in Afghanistan. Seventy thousand civilians killed, nine million refugees, and ninety-two percent undernourished are embodied in those suffering feet who, unable to pay for passage, left Greece on foot to enter Serbia and Bosnia-Herzegovina or reached Italy after crossing through Bulgaria and Romania.

The atmosphere is lively at the ‘World Square’. Some help the volunteers of the “Shadow Line” association; others play volleyball. People offer Arab sweets. These are such places, places absent from official cartographies but present everywhere, reminding us that humanity never ceases to witness absurd, intolerable violence and, at the same time, indestructible, resilient solidarity.