Anticorpi Bolognesi
WJ #112 speciale covidBologna la dotta, la grassa, la rossa. Bologna chiassosa, sempre viva e concitata fra colli e osterie, locali e cortei. Così conosciuta, “la vecchia signora dai fianchi un po’ molli” in poche settimane si è trasformata in una città muta, pervasa da una solitudine angosciante. Il cupo silenzio ne riempie le strade, ma Bologna “resta umana”, nonostante le difficoltà causate dalla pandemia covid-19.
Bologna però non è rimasta ferma. Sono nate iniziative di solidarietà, raccolte di cibo e altri beni di prima necessità, sportelli di ascolto, attività di sostegno alle persone anziane, a migranti e a senzatetto. Persone da sempre ai margini della società, che in questa situazione hanno subito l’aggravarsi della loro condizione già precaria.
Studenti e attivisti, associazioni e centri sociali, artigiani e aziende, anime eterogenee della stessa città, che in questa situazione di emergenza si sono unite con l’obiettivo di superare crisi inaspettata, senza lasciare nessuno da solo.
“Anticorpi bolognesi” è un reportage che racconta questa multiforme umanità, tra immagini, parole, grafiche e illustrazioni. Un modo per mostrare una vita quotidiana cambiata solo per necessità, e che per questo non si piega nemmeno davanti a un virus globale. La narrazione segue tante piccole storie collegate tra loro da molteplici fili rossi che creano una rete di umanità, di speranza e, soprattutto, di azioni concrete per fare in modo che questa esperienza non lasci tutto come era prima ma che diventi un’esperienza sulla quale impostare nuove basi per ripensare la società.
Questa presentata su WJ è solo la prima parte di un progetto più ampio che vi invitiamo a sostenere, contribuendo alla campagna crowdfunding su Produzioni dal Basso. Il lavoro completo prevede 12 storie, 150 pagine, più di 100 fotografie, illustrazioni, grafiche e testi di approfondimento che confluiranno nel primo libro pubblicato su questi mesi turbolenti. Un progetto sperimentale in cui la fotografia si unisce ad altri linguaggi, un lavoro collettivo con le fotografie di Giulio Di Meo, i testi di Sara Forni, gli approfondimenti di Amedeo Novelli, Matilde Castagna e Alessio Chiodi, le grafiche di Vittorio Giannitelli e le illustrazioni di Luca Ercolini/Elle.
Con la scusa dei fiori
A Bologna oltre mille ragazzi si sono offerti volontariamente per portare la spesa a casa di chi è più in difficoltà, come anziani e disabili. Silvia è una studentessa che in queste settimane è diventata volontaria, rispondendo all’appello di Auser. Insieme alla spesa, Silvia regala anche fiorellini ai signori anziani che spesso aspettano solo la visita di uno dei volontari per avere un po’ di compagnia. È convinta che anche un sorriso sia un bene essenziale utile a colmare la solitudine.
Auser è un’associazione nata a Bologna nel 1991 che propone attività e pratiche per lo sviluppo di un invecchiamento attivo per anziani, ma si occupa anche di iniziative per l’inclusione di disabili, minori e soggetti fragili con lo scopo di abbattere le barriere sociali, le disuguaglianze e la solitudine. Auser Bologna dal 10 marzo ha aderito al progetto L’Unione fa la spesa, iniziativa nata a seguito dell’emergenza Coronavirus e che ha lo scopo di consegnare a domicilio la spesa, dagli alimenti ai farmaci, alle persone più fragili, da chi ha bisogno di semplice assistenza, alle persone con disabilità, a chi è affetto da patologie croniche o è immunodepresso e, appunto, agli anziani. Tra loro, ci sono anche Giuseppe e Sofia, due signori che convivono con la solitudine già da prima che arrivasse l’epidemia a isolarli. Per loro, la consegna settimanale della spesa non significa solo un rifornimento materiale di cibo, ma un vero e proprio scambio di umanità e compagnia. Nei giorni in cui l’isolamento si fa sentire più del solito Sofia chiama spesso i suoi figli, che vivono a quattrocento chilometri da lei, nelle Marche. Loro sono sempre molto disponibili, cercano di farsi sentire più vicini anche se l’unico modo che hanno per comunicare è attraverso una cornetta. Però, non è sempre facile far combaciare gli impegni di una giovane famiglia, alle prese con smart working e gestione dei figli a casa da scuola, con le giornate di una signora che vive le sue ore per lo più nel silenzio, tra le mura di casa. A farle compagnia c’è il suo cagnolino, che puntuale porta a spasso due volte al giorno, come fosse il suo appuntamento con una routine di libertà. Sofia ammette di avere molta paura di questa malattia, Racconta infatti, che in tutta la sua vita non si è mai sentita così inerme, un po’ perché sa che la sua età non l’aiuterebbe in un’eventuale caso di contagio, un po’ perché non avere una data di scadenza dell’emergenza rende più lento e confuso il tempo delle sue giornate, che trascorrono tutte allo stesso modo. In ogni caso, mantiene le sua abitudini di una vita: legge i giornali, cucina, chiama i parenti, porta a spasso il cane, aspetta il suo programma preferito alla televisione. Ah, la televisione. Dalla sua voce si capisce quanto sia importante per lei una scatola digitale, finestra sul mondo esterno adesso inacessibile. Giuseppe invece cerca di essere più positivo. Si potrebbe definire un signore 2.0, il mondo digitale per lui non è un mistero anche grazie ai tanti anni di lavoro alla Telecom. Ha un pc, un tablet e uno smartphone che usa per rimanere in contatto con i suoi amici, migranti digitali proprio come lui. Giocano tra loro mandandosi dei brevi video in cui raccontano le loro giornate. Il più divertito da questa pratica bizzarra per un gruppo di quasi ottantenni, è Luciano che appena ha sentito che si poteva uscire fuori di casa con i figli, ha portato a spasso il Bimby, tra una ricetta e l’altra.
Quando Silvia suona il campanello a Sofia e Giuseppe a loro viene da sorridere, come se arrivasse quella nipote lontana, che non vedono da tempo. Sanno benissimo che insieme a frutta e verdura, lei dentro le sue grandi sporte della Coop avrà anche un mazzolino di fiori di campo. Così si scambiano cibo e fiori, facendo durare quell’istante in cui le mani si sfiorano appena, molto più del solito. Nei tempi della pandemia, anche il minimo contatto fa la differenza e sorrisi complici sostituiscono gli abbracci. Si potrebbe pensare che attività di volontariato come questa portino beneficio soltanto a chi le riceve, ma in realtà sono il modo per Silvia di riuscire a continuare a sentirsi viva, di mantenere un contatto umano e per questo cerca di fare più consegne possibili. Anche lei, come Sofia e Giovanni, per rendere un po’ meno silenziose le mura di casa in cui si è trovata incastrata a vivere per caso, un po’ senza volerlo.
Made in Italy
Sull’Appennino bolognese, nel comune di Valsamoggia, si trova una piccola azienda di 35 dipendenti che in poco tempo è diventata fondamentale per il lavoro degli ospedali italiani attivi nella lotta contro la Covid-19. La Siare Engineering, fondata nel 1974 da Giuseppe Preziosa e con un fatturato da 11 milioni, è leader nel campo dell’automazione e della meccanica di alta precisione e fornisce 72 Paesi in tutto il mondo. Dallo scoppio della pandemia Siare è diventata vitale per l’Italia, perché è l’unica azienda in Italia che produce respiratori polmonari, strumenti indispensabili per le terapie intensive degli ospedali.
Per questo motivo, il ministero della Difesa ha deciso di impiegare i suoi reparti specializzati per aumentare la produzione di respiratori e, da fine febbraio, 25 tecnici dell’Agenzia Industrie Difesa affiancano i dipendenti dell’azienda. Un piccolo cosmo del settore biomedicale che a un certo punto si è trovato lo Stato in ‘casa’. Con il loro aiuto, Siare riesce a produrre 125 macchine a settimana, per un totale di 500 al mese. Dopo i primi 325 ventilatori inviati a inizio marzo in Emilia-Romagna, Lombardia, Liguria e Piemonte, Siare ha accettato di produrre 500 macchine al mese per quattro mesi, per un totale di oltre 2.000 apparecchi. Come ha più volte sottolineato il presidente Preziosa, si tratta di una “produzione enorme”. In fabbrica “non abbiamo più orari, non si dorme di notte e l’azienda è diventata la nostra casa. I nostri 35 dipendenti si sono calati immediatamente nella missione, con sforzi disumani”. Lo stesso presidente parla della pandemia come una guerra, e Siare in questi settimane sta producendo le ‘armi per combatterla’ ma è proprio con senso del patriottismo che la produzione continua, con la consapevolezza che quel lavoro aiuterà persone e pazienti che lottano contro il coronavirus. A metà aprile a sostenere Siare è arrivata anche Lamborghini, realizzando un simulatore polmonare in 3D che permette di testare il funzionamento dei ventilatori ancora prima di passare alla fase di collaudo.
Poco lontano da Valsamoggia, a Zola Predosa, ha sede la Gvs Technology Italy, azienda attiva in 13 Paesi con circa 2.500 dipendenti, specializzata in soluzioni avanzate per sistemi di filtrazione dell’aria. Da quando l’emergenza Coronavirus si è abbattuta sull’Italia, la Gvs ha scelto di dedicarsi completamente alla produzione di mascherine Ffp3, le più efficaci in termini di filtraggio di sostanze nocive cancerogene e radioattive, ma anche di microrganismi patogeni come virus, batteri e funghi. Gvs ha messo a disposizione delle Protezione civile e delle strutture sanitarie italiane questi fondamentali Dispositivi di protezione. Gvs produceva già le mascherine in altri Paesi, ma prevedendo l’aggravarsi della situazione, ha avviato quattro linee produttive anche in Italia. Dall’inizio dell’epidemia sono stati assunti 90 nuovi operai con l’obiettivo di arrivare a produrre 650.000 mascherine al mese. Le Ffp3 della Gvs sono certificate biohazard, attestato rilasciato soltanto alle aziende che testano i dispositivi con ‘virus vivi’. In questa azienda infatti, si fa anche ricerca e si lavora a un protocollo per poter riutilizzare questi dispositivi fino a 3 o 4 volte.
Don’t Panic, organizziamoci!
Pochi giorni dopo l’esplosione della pandemia, il tessuto associativo del Terzo settore bolognese ha dato vita a Don’t Panic, organizziamoci!, una rete solidale che nasce come coordinamento di oltre 50 associazioni locali che hanno messo insieme le loro esperienze per fronteggiare l’emergenza coronavirus. Le iniziative messe in campo non si limitano alla semplice raccolta e distribuzione di cibo o alla raccolta di beni di prima necessità ma intersecano competenze trasversali, dal supporto legale e burocratico per le pratiche di lavoro fino al sostegno psicologico per le donne vittime di abusi e sfruttamenti. Come spiega Alessandro Caprara, del circolo RitmoLento, che in queste settimane fa anche da magazzino per la raccolta della spesa: “Mettere insieme tante associazioni diverse e per certi versi anche distanti tra loro, ci ha dato una grande forza e capacità di inventiva. Ora si tratta di tenere duro e approcciarsi alla fase due che sarà la più dura perché le macerie sociali di questa crisi si riveleranno tutte insieme”
A poco più di un mese dal lancio della piattaforma di solidarietà, Don’t Panic ha raccolto più di 4.000 euro grazie alla solidarietà dei cittadini bolognesi che hanno contribuito al progetto. A questi si sommano anche le oltre cento spese raccolte e le donazioni ricevute per il progetto Spesa solidale, che serve in particolare gli Empori solidali di Case Zanardi, ma anche i nuclei famigliari seguiti da Antoniano e Caritas di Bologna. I generi alimentari vengono distribuiti dagli Empori, negozi solidali dove, quattro volte a settimana, un gruppo di volontari accoglie 200 famiglie con bambini che si trovano in una situazione di difficoltà economica e che sono supportate dai Servizi sociali territoriali. Grazie all’accesso agli Empori solidali queste famiglie possono fare una spesa settimanale gratuita grazie ad una tessera mensile a punti che vale dodici mesi. Tra i servizi di consegna, è attivo anche ‘Te li portiamo noi’, a cura di Plus, per portare farmaci antiretrovirali a persone affette da Hiv e quindi non solo immunodepresse ma anche soggette a un forte stigma sociale. Ma non si tratta soltanto di consegne domicilio. A questa attività si aggiunge anche il progetto Sottocoperta, che raccoglie indumenti e intimo per chi non ha una casa, sostenendo attivamente le persone senza fissa dimora assistite dall’onlus Piazza Grande. Grazie anche alla collaborazione con Auser, 140 volontari sono attivi nel progetto ‘Una parola amica’, servizio telefonico in cui giovani e anziani si mettono in contatto per farsi compagnia a vicenda. Grazie ad associazioni come Opera e al comitato cittadino Pensare urbano, Don’t Panic ha avviato anche dei punti informativi per consulenze lavorative e uno sportello attivo a disposizione di chi dovesse dissipare dubbi riguardo la questione della gestione e il pagamento degli affitti. Sono decine le persone che chiedono consulenze in merito ai provvedimenti ministeriali, anche considerando che la mancanza di lavoro e un aumento del precariato rendono senza dubbio complicato continuare a pagare un affitto intero. Ancora, il consultorio studentesco Mala Educaciòn, con la ‘Mappa della malandrina’ invece offre informazioni utili sui servizi attivi in città riguardo la tutela della salute sessuale. A questi si aggiunge anche uno sportello gratuito che coinvolge associazioni territoriali di psicologi e offre assistenza e supporto psicologico per chi sta faticando, anche emotivamente, ad affrontare la crisi. Infine, Don’t Panic, grazie alla collaborazione con Radio Leila ha dato vita ad una sorta di ‘agorà pubblica nella crisi’, dove le persone possono prendere parola nel corso dei programmi radiofonici e condividere pubblicamente i propri timori. Don’t Panic però non vuole rimanere un’esperienza finalizzata solo all’emergenza coronavirus, ma l’obiettivo è proprio quello di dar vita ad un dibattito che possa mettere in discussione la gestione del Terzo settore a lungo termine e non solo a livello cittadino. Per questo, Don’t Panic lancerà una ‘call for paper’, con con l’obiettivo di raccogliere studi accademici, approfondimenti e inchieste sugli effetti sociali che questa crisi comporta nella nostra società, o le attività di supporto agli studenti e alle studentesse più in difficoltà con la raccolta di tablet e dispositivi elettronici da donare insieme ad un vero e proprio doposcuola online.
Tutto chiuso
Tante sono le attività che a causa del coronavirus si sono dovute fermare, ma se ci sono lavori sul calendario hanno segnato un giorno sicuro di riapertura e tutto sommato vedono una luce in fondo al tunnel, ce ne sono altre che invece non hanno né una data per ripartire né la certezza di farcela. Molte di queste si appoggiano all’Associazione ricreativa e culturale (Arci) che opera sul territorio. Dal 23 febbraio, però, tutte le attività di circoli, teatri, cinema e centri sociali sono sospese. Gli spazi dell’arte e della socialità, simbolo e anima sotto i portici e fuori dalle mura bolognesi, vivono un momento durissimo e vedono a rischio la loro sopravvivenza anche quando sarà passata l’epidemia. Vivono questa situazione anche gli oltre 400 musicisti dell’Orchestra Senzaspine, realtà nata con la duplice scommessa di riconsegnare la musica classica all’amore del grande pubblico e offrire ai giovani orchestrali concrete opportunità professionali. Alcuni di questi musicisti infatti, gestiscono anche la Scuola di Musica Senzaspine per rendere accessibile lo studio della musica classica anche ai più giovani. Come spiega Giovanni, uno dei musicisti dell’orchestra che ha la sua sede principale negli spazi del Mercato sonato, “Senzaspine non ha accesso a particolari aiuti economici, perchè si basa principalmente sul volontariato degli stessi soci”. Nessuno di loro ha un contratto stabile, sono tutti liberi professionisti che in questo momento sono disoccupati e ad ora non sanno né quando potranno ripartire con le loro attività, né come. Il settore culturale è stato “il primo a chiudere” e sarà “l’ultimo a riaprire”, ed ora è difficile riuscire ad immaginare di nuovo concerti e eventi con tante persone vicine. L’orchestra Senzaspine aveva già programmato un fitto calendario di iniziative e festival organizzati durante i mesi primaverili e estivi, che a causa delle incertezze sul futuro del virus sono stati tutti annullati in via precauzionale, portando con sé conseguenze economiche forse non sostenibili una volta che tutto tornerà alla normalità. Anche le lezioni online non sono così immediate per chi studia e insegna musica usando i nuovi ‘sistemi’ di teledidattica. Imparare a suonare uno strumento musicale è molto difficile dietro ad uno schermo, mancando il contatto fisico tra insegnante e alunno. Un’ulteriore rinuncia che pesa sulle tasche dei musicisti.
Anche lo sport popolare è simbolo di Bologna. Sono tante infatti, le palestre popolari che, oltre al benessere, promuovono i principi dell’antifascismo, dell’antisessismo e dell’antirazzismo. Nelle palestre popolari ci si allena e si lavora per abbattere gli stereotipi che marchiano numerose discipline come, ad esempio, il pugilato e l’autodifesa che vengono associati comunemente a un’etica violenta e fascista; quando, in realtà, questi sport nascono dal basso, dal movimento operaio.
Alessandro insegna nella palestra popolare Gino Milli, del circolo Guernelli. Per portare avanti il lavoro dei suoi atleti, Alessandro prepara schede personalizzate ad ognuno, per evitare che uno stop forzato possa compromettere tutti i progressi fatti. Non è la stessa cosa però allenarsi nella propria stanza e farlo in palestra e anche per questo gli esercizi spesso si limitano a quelli di mantenimento del tono e della definizione fisica, aspettando il giorno di poter tornare sul ring. E anche aspettando di poter riaprire la palestra, anche se su questo le speranze di Alessandro sono molto più labili. Il pugilato è uno sport fisico, in cui le persone devono necessariamente essere a contatto e per via delle misure di sicurezza e di distanziamento sociale, la Gino Milli rischia di riaprire fra molti mesi, sempre che il fondo economico reggerà lo shock. Insieme a lui vive Noemi, che oltre ad essere sua allieva è anche la sua ragazza. “Adesso ho un allenatore tutto per me”, dice scherzando, quando racconta com’è cambiata la sua vita quotidiana dall’inizio della pandemia. Le loro giornate trascorrono tra l’incertezza di poter tornare a gareggiare e allenamenti nel giardino condominiale, sotto gli occhi curiosi dei vicini di casa.
Drammatica anche la situazione dei circoli per anziani, come lo storico Arci Caserme Rosse. Appena è scoppiata la pandemia lo spazio attivo nel quartiere Navile, ha chiuso la serranda senza sapere se e quando riuscirà a rialzarla. Come racconta il presidente Roberto Occhi, il circolo stima una perdita di oltre 5.000 euro per ogni settimana di chiusura, se si considerano tutte le entrate economiche perse, dalle semplici consumazioni al bar alle collaborazioni con, ad esempio, le nove squadre di biliardo che si allenano alle Caserme rosse, per un totale di 130 giocatori. “Il rischio non è solo economico, ma anche sociale. C’è un tessuto culturale legato a tradizioni popolari che forse rischiano di andare perdute”, racconta Occhi. La sopravvivenza di Caserme Rosse significa molto di più però di una mera questione economica. Come accade nei circoli di quartiere come questo infatti, lo spazio è un punto di riferimento per gli abitanti della zona e non solo, dagli oltre 400 soci che inizialmente non volevano saperne di smettere di ritrovarsi per giocare a carte insieme, alle famiglie abituate a portare i bambini giocare, anche considerando che il circolo ospita anche una scuola materna.
Staffette alimentari partigiane
Più passavano i giorni di quarantena, più iniziavano ad aumentare le azioni di solidarietà. Ma ci sono persone diverse dagli anziani Giuseppe e Sofia, persone che non possono ricevere la spesa a domicilio, per un motivo tanto semplice quanto brutale: una casa non ce l’hanno. Sono gli oltre duemila senza tetto che vivono sotto i portici di Bologna, che non possono rispettare la regola del #restiamoacasa e che, durante i mesi del lockdown, hanno avuto più bisogno del solito, non solo per poter mangiare ma anche per proteggersi, tutelando la propria salute contro il coronavirus. Bologna però, anche in questo caso ha fatto comunità. Questa volta ci hanno pensato i collettivi YaBasta, Làbas e TPO, avviando la campagna Staffette alimentari Partigiane. Dai primi giorni di aprile, ogni sabato per due mesi, gli attivisti si impegnano a consegnare un sacchetto con prodotti alimentari e sanitari ai senza fissa dimora di Bologna. Ogni sacchetto vale circa 15 euro e non contiene solo cibo e prodotti sanitari, ma anche un libro, un bene più che essenziale per combattere la solitudine.
Per garantire il servizio i collettivi hanno lanciato una campagna di crowdfunding che in un solo mese ha raccolto oltre 21.000 euro. Questo perché le Staffette, partite con un solo obiettivo, hanno dato via ad altri progetti e ora danno supporto anche a altre persone in difficoltà. In poco tempo le biciclette dei volontari sono arrivate a sfrecciare almeno tre volte alla settimana lungo le strade della città, e consegnano la spesa anche ai detenuti del carcere Dozza, che ora sono agli arresti domiciliari per una maggiore sicurezza e tutela della loro salute, ma che, vista la loro condizione detentiva, sono impossibilitati ad uscire.
Il terzo episodio delle Staffette partigiane alimentari è ‘Il mio rifugio è un libro‘ e si rivolge ai bambini e alle bambine più in difficoltà, gli stessi che normalmente sono seguiti dai doposcuola di comunità organizzati da Tpo e Labas. “Ci sono case dove si sta in tanti e i libri sono pochi, case di recente arrivo o dove i libri arrivavano con la scuola e le biblioteche. Case che ora sono senza libri- spiegano i volontari- chiediamo che queste bambine e bambini possano avere con se’ un libro perché con un libro si può viaggiare, si parte per destinazioni sconosciute e ci si tiene compagnia“. I libri che vengono distribuiti sono acquistati dal catalogo di una delle case editrici indipendenti che hanno aderito all’iniziativa (Camelozampa, Edizioni Libre, Momo edizioni, Orecchio Acerbo Editore, Pulce Edizioni, Sinnos Editrice e Uovonero) e che, per dare il libro contribuito concreto hanno scontato del 50 per cento i volumi. Dentro ai loro speciali sacchetti i bimbi trovano anche materiale per scrivere e disegnare.
R’esistere
L’ultimo anticorpo riassume tutte queste storie in una parola: Resistenza. Epidemia e lockdown hanno significato anche l’impossibilità di celebrare, per la prima volta da 75 anni, la Festa della Liberazione dal nazifascismo in Italia. Il 25 aprile 2020 lo ricorderemo come il giorno perfetto per festeggiare, era un sabato e c’era il sole, cosa rara considerato che ormai la pioggia è una tradizione. Oltre al danno, la beffa. Una così bella giornata sarebbe stata perfetta per passare l’intera giornata al Pratello, ma quest’anno quello che non è stato possibile fisicamente si è spostato sul web, sui social network e affacciati ai balconi di casa.
Anche questa volta però Bologna ha provato a reagire all’emergenza sanitaria cercando una strada creativa. L’associazione Pratello R’esiste ha pensato a un modo per festeggiare comunque tutti insieme e così, centinaia di volti infatti hanno riempito i portici di via del Pratello. Non si trattava di persone in carne e ossa ma fotografie in primo piano, appese sulle pareti della strada. Distanti, ma uniti.
Non sono mancate anche le iniziative in presenza, come ‘Finestre resistenti’, una speciale proiezione di video dedicati alla Resistenza e alla Liberazione dal nazifascismo, che sono stati trasmessi contemporaneamente in tante città italiane, venerdì 24. Anche questa vota Bologna non è tirata indietro e il circolo Arci Instabile, nel quartiere Savena, ha preso parte all’iniziativa rispondendo alla chiamata degli organizzatori, Alice nella città e 6.000 sardine. “Siamo stati fortunati perché avevamo già a disposizione un vecchio proiettore”, racconta una delle organizzatrici. In pratica, l’invito degli organizzatori era di trasmettere sulla parete opposta di casa o del proprio condominio, dando voce a un silenzio che normalmente sarebbe surreale a una proiezione all’aperto, tanto di più in importante come la Festa della Liberazione.
Sempre sabato invece, la fattoria di Masaniello, nel quartiere Pilastro, ha messo in piedi la sua personale Liberazione, preparando piatti di pastasciutta, tra i simboli dell’antifascismo, per gli abitanti del quartiere. Non solo, insieme alla pasta Masaniello consegnava anche una bandiera, donata da Anpi, con la scritta ‘W la Resistenza’, da appendere ai balconi o da tenere come ricordo di quel giorno particolare. L’iniziativa non aveva scopo di lucro e anzi, tutti le donazioni su base volontaria dei partecipanti all’evento, sono state devolute all’associazione Piazza Grande onlus, attiva sul territorio locale con attività di cura e assistenza ai senza tetto.
Ripensare il futuro
di Matilde Castagna
“Ti do due minuti per disegnare un labirinto che ne richieda uno per risolverlo.” – Dominick Cobb
Italia, marzo 2020 – esterno giorno.
Gli ospedali sono allo stremo. Strade desolate, chiusi i bar, le montagne, i musei, le chiese deserte, la paura e il sospetto, la sopravvivenza in prima linea, le code (a distanza) fuori dai supermercati, una sigaretta in terrazza, il lavoro virtuale come la scuola di tuo figlio, metti un Leonard (Cohen) e la speranza in un arcobaleno.
Ancora credevamo fosse un film. Di fantascienza, ovvio. Il pianeta Terra viene improvvisamente attaccato da un nemico invisibile, un virus letale, un contagio; l’esercito nazionale si prepara alla difesa…e poi l’intoppo sugli schermi – non c’è niente da combattere, non davvero e non qui. Nel frattempo, i medici e il personale ospedaliero e volontario si sottopongono a turni massacranti per arginare la malattia (orribile), salvare vite, confortare e supportare, come fanno da sempre in realtà, solo che ora ce ne accorgiamo di più. Così li guardiamo ammalarsi, li riconosciamo, li fotografiamo in volto e capiamo di aver atteso troppo tempo per proteggerli e occuparci di loro. Ora finalmente vorremmo aiutarli, quando un tremendo dubbio ci assale: forse abbiamo sbagliato il film.
Forse siamo caduti in un loop, ci troviamo in una foresta e possiamo addirittura scegliere se restare immobili oppure fare qualcosa per sopravvivere. Prendi una città, come ad esempio Bologna, dove la risposta è una questione di anticorpi, non di fantascienza. Anticorpi sociali come i fiori di Auser, i polmoni meccanici della Siare Engineering, le staffette alimentari partigiane di YaBasta, Làbas e TPO, le spalle larghe di Don’t Panic con la calda voce di Radio Leila, gli spaghetti di Casa Zanardi e le note leggere dell’Orchestra Senzaspine.
“La morte è una cosa inconcepibile, ma puoi riconciliarti con essa. Fino a quel momento passerai i giorni a chiederti se hai fatto le scelte giuste.” – Lo Straniero
Molte cose del coronavirus non le sapevamo e molte ancora restano sconosciute, ma una ce la ripetevano i nostri nonni: prevenire è meglio che curare. La scienza può curare ed è un mezzo potente, ma è pur sempre un mezzo e non un fine. Per prevenire bisogna scegliere nella foresta la propria strada da percorrere, anche se questa può essere intricata, insidiosa, complessa e molte volte incomprensibile. Cosa succederebbe ad un mondo dove gli anziani non fossero più i depositari di un sapere, guida e testimone per le generazioni future; e che accadrebbe alle nuove generazioni se non riuscissero più a trovare nel loro paese spazio e possibilità, tanto da desiderare di fuggire lontano dalle proprie radici di appartenenza?
Quale destino avrebbe un pianeta in cui l’uomo si comportasse da padrone assoluto, abusandone al punto di mettere a rischio non solo l’esistenza e l’equilibrio di migliaia di altre specie viventi, ma persino la sua?
Se la storia ci insegna che ad ogni grande crisi segue un imprevisto risveglio, che può esserci qualcosa di prezioso anche nella morte e nello sconvolgimento, dovremmo rivedere subito le nostre priorità. E non si tratta solo degli ospedali e dello stato e di un sistema diverso che investa davvero in sostenibilità, cultura, sanità, tutela dei più deboli, integrazione, scuola, lavoro e che non svenda le sue risorse più preziose, ma le sostenga. Abbiamo bisogno di più anticorpi sociali e di una collettività condivisa basata su modelli diversi che ripensino radicalmente le comunità, le città, la natura, lo spazio e il tempo in cui viviamo al servizio dell’altro. Ci serve più umanità.
“Che mondo ci aspetta nel futuro?” Lo Straniero: “Spero uno migliore di quello che è oggi.”