Anitya
WJ #95L’Impermanenza nei monasteri buddhisti femminili dell’altopiano dello Zanskar
“Non c’è niente di costante, tranne il cambiamento” Gautama Buddha
Anitya, l’Impermanenza, segno sanscrito dal suono femminile, è uno dei princìpi cardine della dottrina buddhista. E’ la percezione del costante divenire di sé e del mondo, l’abbandono dell’attaccamento al materiale, la consapevolezza dell’essenza transitoria del tutto.
Un altopiano d’alta quota con anse di fiume e vette che si stagliano fin ai 7000 mt del Nun e Kun, lo Zanskar, “terra di rame bianco”, è un nome che risuona della durezza e della morbidità del suo paesaggio.
Valle himalayana del Ladakh, nello stato indiano del Jammu e Kashmir, è remota e minuta, timida tra i grandi, l’India che la contiene, la Cina e il Pakistan che la incorniciano. I confini nazionali sono ancora oggi militarizzati, segnati nella storia dai conflitti indo-pakistani, dalla guerra civile in Kashmir e, ancor prima, dall’annessione all’India di quel piccolo lembo di terra che fu parte del regno tibetano di Guge, ora cinese.
E’ in Tibet, dunque, che affondano le radici della filosofia e della religione dello Zanskar. Culla nei secoli del misticismo buddhista della scuola Vajrayana, punteggiato di gompa, stupa, muri mani, ruote di preghiera, bandiere di mantra al vento, questa valle è stata meta e patria di asceti ed eremiti, Naropa e Padmasambhava tra altri. Quasi ogni villaggio, e i villaggi zanskari sono solo una manciata, ha un monastero, un gompa, maschile o femminile. A volte entrambi, nettamente separati, anche semplicemente da una crepa rocciosa, che ne corona l’isolamento. In perfetta simbiosi, l’uno, il villaggio, provvede all’esistenza nella dimensione materiale, l’altro, il gompa, in quella spirituale.
Dorje Dzong, Zangla, Karcha, Tungri: monasteri remoti, minuscoli e ammaccati dal tempo dove lo sguardo di Monica Bonacina cerca il volto femminile del buddhismo. Di monache bambine, ragazze, donne, anziane, nel loro quotidiano vivere, spirituale e materiale, dove i confini temporali di ogni alba e tramonto, sono scanditi da riti che si ripetono quasi immutati e immutabili: in cucina, mentre si impasta tsampa e si scioglie burro di yak nel tè bollente, a scuola, dove monache bambine imparano un poco di presente e futuro, nelle celle, minuscole e stipate di beni essenziali, nei templi, della meditazione e preghiera. Dove, sempre e da sempre, la luce è cordone ombelicale, ad un capo il piccolo dentro, all’altro l’immenso fuori.