Accùra
WJ #118“Ricordo perfettamente la paura nel sentire la terra tremare quando l’Etna sbuffava, la sua sabbia nera sul balcone di casa e lo spettacolo notturno delle eruzioni. Ricordo i campi di pistacchi non recintati, in cui di nascosto entravo per raccoglierne qualcuno da mangiare. Le spine di fichi d’india sottopelle ogni volta che li raccoglievo per mia madre, perché a me non piacevano mentre a lei da impazzire. I cani randagi incontrati lungo la strada, quelli salvati e portati a casa dei nonni e trovati morti nella “sciara”; i gatti, utili solo per cacciare i topi, scacciati malamente a colpi di scopa se cercavano del cibo e considerati portatori di disgrazie se di colore nero. Più di tutto, però, ricordo il colore del fuoco: quello dei tramonti, delle grigliate nei giorni di festa e dei falò in spiaggia durante l’estate; quello della lava del vulcano in eruzione e degli incendi, dolosi, quasi quotidiani. Ogni cosa, illuminata dalla luce abbagliante del sole, bruciava silenziosamente e, una volta bruciata, diventava nera.”
Emigrata nel nord Italia nel 2001, ancora bambina, Laura torna nella sua terra d’origine dopo vent’anni per fotografare con gli occhi della donna di oggi la terra che impregna i ricordi della bambina di ieri.
Terra meravigliosa e ostile, teatro di uno dei più grandi movimenti emigratori della storia moderna, la fotografa ci racconta di una Sicilia complessa e contraddittoria, dove il rosso è di tramonti e lava, al profumo delle pannocchie arrostite fa da contrappunto il fumo degli incendi e nella luce abbagliante stride il nero della terra bruciata.
Un posto dove la vita non è facile e dove bisogna fare attenzione: “Accùra!”, riecheggia, nei suoi ricordi la voce della nonna che mette in guardia la bambina di allora, curiosa e incurante dei pericoli. In dialetto siciliano, accùra è una parola che racchiude tutta la preoccupazione e l’apprensione per qualcuno. Dal latino accurare, cioè̀ porre cura; corrisponde all’italiano “badare”, “prestare attenzione”. Si potrebbe quindi tradurre con “Fai attenzione!”, “Attento” o “Bada bene!”, in base al contesto di utilizzo. Accùra, dunque, per chi resta e abita questa regione, ma accùra anche per chi parte e lascia una terra difficile ma conosciuta.
Gli anni passano e, nonostante le distanze si allunghino e i tempi si dilatino, i ricordi restano, diventano memoria: è in questo modo che gli esseri umani stabiliscono la connessione tra passato e presente. La memoria non è semplice registrazione del passato ma una sua rappresentazione, all’intersezione tra ricordo e oblio, tra elementi assunti e altri rimossi dallo scenario.
Ricordi che, come quelli di Laura, trovano radici nei luoghi di origine delle storie familiari, nella distanza spaziale e temporale si caricano di significato simbolico.
Per gli antropologi, la memoria permette di apprendere e comprendere i mondi culturali delle popolazioni. È il pilastro su cui si costruisce l’identità, che Joël Candau dice essere “la capacità che ognuno di noi possiede di restare cosciente della continuità della propria vita attraverso i cambiamenti, le crisi e le rotture”.
Il lavoro di Misuraca non solo ci restituisce, attualizzandoli, ricordi e sensazioni, ma ci invita a interrogare la relazione tra memoria, identità e appartenenza, a cercare il confine sottile tra il soggettivo e il culturale. Ci parla di un vissuto incorporato – le spine sulle dita, il sapore dei pistacchi, il sole sulla pelle – che tesse il legame identitario a una terra, a una comunità lasciata, ma mai persa.
Nel rivenire a quei paesaggi con occhi adulti, i ricordi di Laura ritornano materia: terra e pietre, volti e case vanno a costruire quella memoria che, condivisa, da individuale diviene collettiva.