19 metri quadri d’inferno
WJ #104Viaggio dentro un angusto e soffocante bar africano in cui convivono il disagio e la fragilità di tante esistenze, uno sguardo su una delle problematiche meno considerate in Africa: il consumo di alcolici.
Una missione in piena foresta, nel nord-ovest dello Zambia, al confine con il Congo. Una scuola, la St. Joseph, che contribuisce al mantenimento e all’istruzione di circa 150 bambini sordi. Un centro, il St. Francis di Solwezi, che cura i malati di lebbra e offre un supporto alle loro famiglie. Una suora, Suor Carmela, che grazie al supporto della onlus “Gli occhi della speranza” gestisce fondi e aiuti di tante benefattrici e benefattori italiani.
Antonio Manta, fotografo e stampatore toscano, era volato in Africa per documentare uno dei tanti esempi di solidarietà europea riuscita, attiva e preparata. Ma il suo occhio è andato oltre, si è soffermato sulla comunità locale, suoi luoghi e sui gesti che ogni giorno si compiono appena fuori dalla missione. Per tre giorni ha passato quasi dodici ore al giorno dentro un minuscolo bar di appena 19 metri quadrati, non si è mosso di lì e ha visto scorrere di fronte a sé decine di storie: da quella del disoccupato a quella della prostituta, dal giovane senza futuro all’infermiere, al tecnico, al muratore o all’insegnante: ci sono anche loro, i fortunati che lavorano nella missione, tra i tanti che vengono qui a bruciare lo stipendio dentro fiumi di alcol.
Racconta Suor Carmela: “All’inizio pagavo gli stipendi una volta al mese, ma poi ho visto che molti esaurivano quella cifra in pochi giorni dentro il bar. Allora ho deciso di passare alle paghe settimanali, in modo da non mettere nelle mani di questi ragazzi troppi soldi tutti in una volta. Neppure questo è bastato: ora distribuisco buoni pasto, ma c’è chi vende anche quelli per potersi comprare da bere.”
I consumi di bevande alcoliche sono in aumento in gran parte del continente africano, anche grazie alla carenza di normative che ne regolamentino l’uso e la vendita. Secondo l’ultimo rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità in Africa si consuma una media di cinque litri di alcol all’anno per persona e il dato è destinato ad aumentare. L’area è molto attraente per i grandi produttori internazionali di bevande alcoliche i quali, per adattarsi al basso potere d’acquisto, hanno sviluppato dei prodotti low-cost tali per cui una bottiglia di birra può costare anche meno di una di acqua minerale. Là dove l’estrema povertà non permette di comprare bevande alcoliche «controllate» (soprattutto nei villaggi non raggiunti dalla grande distribuzione) se ne producono in modo artigianale con notevoli rischi per la salute.
Quattro mura incrostate, panche sgangherate, qualche bottiglia dalla quale si deduce che la produzione è al cento per cento casalinga e nessun oggetto appeso alle pareti. Nei 19 metri quadrati del bar a fianco della missione di Suor Carmela per divertirsi non c’è nulla ad eccezione di un piccolo juke-box, collegato a grandi casse dalle quali esce musica ad altissimo volume. Si beve a ogni ora del giorno, si beve per noia o per non sentire la fame. “Spesso al centro vengono a trovarmi madri che si lamentano dei loro mariti: non riescono a sfamare i bambini perché il loro stipendio finisce tutto al bar” afferma Suor Carmela, che in appena due anni ha visto crescere da due a quaranta il numero dei bar nell’area circostante.
Secondo Manta “è triste dover ammettere che molti degli aiuti europei spesso finiscono per essere gettati al vento per la mancanza di una cultura locale che sia davvero pronta a ricevere; forse sarebbe meglio offrire altri strumenti, investire nell’educazione, nella cultura del lavoro e della famiglia”.
E’ quello che con fatica e dedizione cerca di fare Suor Carmela, che a fianco del suo modello virtuoso fatto di educazione, cultura, autonomia e responsabilità, vede crescere un inferno di alcol e degrado. “La strada è ancora lunga” dice a bassa voce, mentre dai bar del villaggio provengono urla e rumori di vetri rotti.