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Fotografie di Daniele Napolitano e testi di Serena Chiodo
“Il nostro sforzo dovrebbe essere un’eccezione, invece ci rendiamo conto che è e sarà la normalità”. A parlare è Pietro Vicari, membro del Comitato di quartiere Quarticciolo. Trent’anni, vive in un edificio a sei piani, un tempo Casa del fascio, poi questura. Ora è un’occupazione abitativa, sulla cui facciata svetta un’enorme murale di Blu. Si staglia nella piazza del Quarticciolo, borgata alla periferia est di Roma. Blocchi di case popolari uno in fila all’altro per circa seimila abitanti, di cui moltissimi aspettano da anni un alloggio in edilizia residenziale: nell’attesa, si arrangiano come possono, spesso in scantinati e in condizioni di sovraffollamento. Il tasso di disoccupazione è altissimo rispetto alle zone centrali della città, così come quello relativo all’abbandono scolastico. A proposito di abbandono viene in mente il ruolo delle istituzioni: assente. Da sempre. Una mancanza che si è palesata in tutta la sua gravità durante l’emergenza sanitaria legata al Covid-19.
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Emergenza nell’emergenza
“Prima facevo diversi lavoretti, tutti in nero. Ora ovviamente sono fermo”: così Christian, 18 anni, abitante di una casa occupata, che prosegue: “I buoni spesa che dovevano arrivare dal Comune non si sono visti. Ci sono stati dei giorni che con la mia compagna ci guardavamo e dicevamo: e domani cosa mangiamo?”. Gli fa eco Anna, sessantenne di origine ucraina. “Lavoravo in un albergo, con un contratto rinnovato di mese in mese. Da marzo ovviamente l’albergo non lavora più, e quindi nemmeno io. Non avendo un vero contratto non ho alcun sostegno: ho dovuto iniziare a mettere mano ai risparmi”. Situazioni comuni a molti nel quartiere, che dalle istituzioni hanno ricevuto poco o nulla: alcuni il bonus di 600 euro – che di fronte ad affitto, bollette, spesa finiscono molto presto, ancora di più se si hanno figli – o la cassa integrazione, con i ritardi che hanno accomunato l’intero territorio nazionale. Tanti non hanno visto arrivare niente, perché lavoratori in nero o disoccupati, e da un giorno all’altro sono rimasti senza alcuna fonte di reddito. I buoni spesa del Comune sono stati consegnati in modo parziale e con gravissimo ritardo. Il mantra ripetuto da spot pubblicitari, comunicazioni istituzionali e messaggi social – “state a casa, andrà tutto bene” si infrange sull’esperienza concreta di un paese in sofferenza e su problematiche che perdurano da anni.
“Per fortuna ci sono i volontari che distribuiscono le cassette”, dice Anna, riferendosi a chi, da subito, ha pensato a come muoversi nel contesto della pandemia per non lasciare solo nessuno: i membri del Comitato. Di fronte all’assenza istituzionale sempre più pesante, infatti, qui – come in altri quartieri della capitale – la differenza l’hanno fatta i cittadini, auto-organizzati per mettere in pratica forme di solidarietà e autodeterminazione importanti quando non essenziali.
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Fin dalla prima settimana di lockdown, dalla finestra al sesto pianto dell’edificio al centro della piazza arrivavano, raggiungendo tutto il quartiere, musica, parole di supporto e appelli al senso di comunità e alla necessità di essere protagonisti attivi della propria quotidianità. A questo si è affiancato ben presto il sostegno materiale, con la distribuzione di mascherine, gel disinfettante, guanti: “Una signora ci ha portato mascherine cucite da lei, un residente del quartiere ha regalato diversi litri di amuchina e l’abbiamo distribuita. Ma ci siamo subito resi conto che il bisogno alimentare era predominante”, spiega Vicari. Così ogni martedì e sabato di fronte al Red Lab – centro sociale al piano terra dell’ex questura – per due mesi sono state distribuite cassette di frutta, verdura, pasta, pane: prodotti raccolti grazie al sostegno di singoli individui, negozianti, aziende agricole, produttori. Dai braccianti di Rosarno sono arrivati 40 kg di arance. “E’ chiaro però che non si vive solo di questo: ci sono persone che non hanno i soldi per fare le ricariche ai cellulari per la didattica a distanza dei figli, o per sistemare la macchina per andare a lavoro”.
Dalle istituzioni nulla, se non addirittura richieste di aiuto: i volontari sono infatti stati contattati per portare la spesa a persone in stato di difficoltà. “Siamo andati ovviamente. Ma bisogna riflettere su una città con droni, polizia e militari in tutte le strade in cui non c’è chi va a fare la spesa per gli anziani”, commentavano allora i membri del Comitato, che accanto alla necessaria attività di sostegno alle persone – più di cento le famiglie assistite – ha sempre accostato una forte denuncia dell’assenza istituzionale, anche con azioni mirate: “Questi bisogni non possono essere scaricati sui volontari”, sostenevano l’8 maggio, mentre scaricavano simbolicamente le cassette vuote davanti al Municipio di zona, per poi partecipare, insieme ad altri gruppi di volontari attivi nella capitale, alla manifestazione in piazza del Campidoglio con cui si è sollecitata l’elargizione dei buoni spesa. “La politica ha annunciato per mesi misure di sostegno alle famiglie: misure che semplicemente non esistono”, denunciavano, sollecitando la politica a trovare velocemente gli strumenti per intervenire. Né dall’amministrazione territoriale né dalla giunta comunale sono arrivate risposte concrete, e ancora una volta il quartiere si è dovuto organizzare da solo.
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“Dalla borgata per la borgata”.
Del resto l’autorganizzazione è da anni alla base della gestione del quartiere, che non è mai stato protagonista di una presa in carico istituzionale. Da questa assenza, un gruppo di giovani ha deciso di prendere in mano la situazione, inizialmente con il recupero in piena autonomia di un locale caldaie di un edificio dell’Ater – Aziende Territoriali per l’Edilizia Residenziale – in stato di abbandono da oltre vent’anni: dal 2016 è aperto al quartiere come palestra popolare.
“Nel 2015 abbiamo occupato questi locali per denunciare l’assenza di attività nella borgata”, spiega Emanuele Agati, trent’anni, membro del Comitato e allenatore di pugilato nella palestra. “Prestiamo particolare attenzione alle esigenze delle fasce giovanili, anche chi non si allena passa il pomeriggio in palestra a vedere gli altri. Nel quartiere non c’è nient’altro”. Diversi ragazzi sono nel frattempo diventati pugili a livello agonistico, trovando nello sport una propria valorizzazione.
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Uno di loro è Amr Abdalla. Diciannove anni, ha partecipato volontariamente alla distribuzioni: “Mi fa molto piacere dare una mano. Vedo tanta gente che ha bisogno, e non solo durante la quarantena. E sono orgoglioso di questa attività”. All’inizio di quest’anno la palestra ha finalmente ricevuto l’assegnazione ufficiale dall’Ater, che ne ha riconosciuto il valore per il quartiere. Intanto in questi anni intorno allo sport si sono moltiplicate le azioni: un doposcuola autogestito, partecipato da una quarantina di bambini, laboratori nelle scuole incentrati sul recupero della memoria storica antifascista del territorio, fino ad arrivare alla creazione del Comitato per rivendicare i diritti dei cittadini, in particolare quelli, moltissimi, in emergenza abitativa.
Il tutto avviene con un’attenzione costante al senso di comunità e all’aggregazione: dal 2016 ogni anno la piazza è animata da una festa di quartiere totalmente autogestita e accessibile a tutti. Si è svolta anche quest’anno, nonostante il Covid-19: anzi, proprio quest’anno se ne è sentita la necessità. E così, mentre superata la fase acuta dell’emergenza sanitaria la politica istituzionale insisteva sulla ripresa economica, al Quarticciolo si trovava il modo di stare insieme. Perché è in un momento di crisi che una comunità consapevole, partecipata, sensibile ai bisogni di tutti risponde: con mascherine e beni alimentari, ma anche socialità e condivisione. Tutte facce di una stessa medaglia, fatta di conoscenza e cura del territorio.