Se si pensa ‘scuola’, si pensa ai ragazzi, all’adolescenza, a classi rumoreggianti, distratte, vivaci, partecipi, curiose; agli zaini decorati, ai libri maltrattati, ai quaderni scritti, agli evidenziatori colorati. Senza studenti, e senza tutto il loro corredo di vita, non può darsi scuola e questo luogo diventa uno spazio vuoto di senso, monco.
Lo dico sempre alle mie classi quando le incontro per la prima volta: “Siete voi la parte fondamentale di questo grande gioco che chiamiamo ‘scuola’. I luoghi nei quali qualcuno parlava da solo in una stanza vuota, si chiamavano ‘manicomi’ e li hanno chiusi tanti anni fa”. L’insegnante che parla innamorato di sé e della propria voce, forse non ha ben chiaro perché si trova in quel luogo. Si può giocare a calcio senza tifosi? Forse sì: resta il gioco, la competizione, il premio. E recitare o suonare senza pubblico?
Certo, se lo si fa per l’arte. Ma la scuola la si fa per gli studenti e con gli studenti. L’emergenza ci ha regalato una situazione inedita, ha trasformato un luogo in qualcosa d’altro da sé privandolo dell’unica componente davvero essenziale. Nessun istinto polemico, né politico nel voler raccontare di scuola di questi tempi, ma solo una constatazione: a scuola, senza gli studenti, ci si sente tremendamente soli.