Retrospective di Elliott Erwitt

il tempo e lo spazio della fotografia

Retrospective © Federico Bernini

Qualche giorno fa, al Forte di Bard in Valle d’Aosta, Elliott Erwitt ha ritirato il premio alla carriera in occasione della retrospettiva sul suo lavoro, visibile fino al 13 novembre.

La mostra raccoglie nove sezioni a colori e in bianco e nero coprendo un arco temporale che va dal 1948 al 2005.

L’opera di Erwitt spazia dagli scatti pubblicitari ai ritratti alla documentazione del nostro e del suo tempo.

È proprio su questa sua ultima propensione che vorrei puntare l’attenzione: la capacità di sintesi e di sobrietà unite ad una eccezionale cura per la composizione, rendono le foto di Erwitt dei ritratti del nostro tempo, dei documenti assoluti, capaci di restare oltre lo scorrere del tempo e di raccontare con forza e attualità lo spirito del momento.

Questa mostra ci richiama ad una riflessione sul tempo e lo spazio della fotografia: non solo quando e dove scattare, ma anche il tempo che trascende lo scatto e dunque la durata di quell’immagine nel suo significato e nel suo ruolo, dunque la sua destinazione. Quanto dura quell’immagine? Dove andrà a finire? Dove sarà collocata e con quale scopo?

È vero sono domande che possiamo porci difronte ad ogni immagine, che il fotografo dovrebbe porsi ogni volta che preme il pulsante di scatto, ma con Retrospective queste domande salgono su in modo naturale, affiorano senza volerlo e ci vai a sbattere contro.

La serie beaches, la prima che si incontra visitando la mostra, raccoglie una serie di scatti realizzati lungo spiagge e coste marine, la presenza dell’uomo è forte e ricercata, queste immagini ci arrivano a distanza di 40 anni continuando ad esercitare un ruolo forte nel nostro immaginario perché non hanno soltanto la forza documentativa ma anche la ricerca dell’evocazione.

Questo tema a mio avviso è quello che mette in discussione oggi il modo di interpretare e praticare il fotogiornalismo.

La facilità di accesso e di utilizzo delle nuove tecnologie di ripresa fotografica hanno rovesciato il piano di ragionamento con il quale, solo fino a qualche anno fa, si affrontava il mestiere e la professione del fotogiornalista. Sempre più frequenti sono i casi di produzione e autoproduzione dell’informazione fotografica di alta qualità e di rigore deontologico. Sempre più esteso è il fenomeno del citizen journalist e del blogger che assolve spesso alle mancanze contenutistiche e di approfondimento dei grandi media. Ma, nonostante questo profondo e in parte ormai datato cambiamento, resta il problema del tempo delle nostre fotografie. Un flusso continuo e incessante di immagini fotografiche inonda le redazioni dei giornali, invade gli archivi delle agenzie: tutto materiale che documenta il nostro tempo, ma, paradossalmente, non abbiamo il tempo di verificare se tutte quelle immagini sono veramente tracce di un’epoca, espressioni di un mondo e di una società oppure cattive riproduzioni del reale che niente aggiungono al racconto del presente.

Si producono immagini su ogni notizia, ma ogni immagine non produce una notizia e questa è la debolezza del modo compulsivo di intendere il fotogiornalismo oggi.

Il punto non è tornare a parlare della “necessità della fotografia” un tema che ha coinvolto e appassionato storici, fotografi, critici e sociologi per anni, il punto è comprendere come e quanto quell’immagine scattata avrà un suo tempo, potrà essere vista, verrà ricercata, potrà essere compresa e digerita. Ho la sensazione che, in modo molto più massiccio e senza un criterio, oggi si producano immagini che pochi minuti dopo vanno al macero digitale: nessuno le ricorda e tutti vivono bene senza.

Per tornare alla mostra di Erwitt, certo alcune immagini possono piacere meno di altre, alcune forse possono anche essere superflue, ma l’intera serie di Retrospective propone al cittadino un insieme di immagini che continuano ad avere un posto nel tempo.

Qualcuno potrebbe dire: ma Erwitt è Erwitt e questo è vero, ma spostare la questione sulla notorietà del personaggio non risolve il problema anzi lo amplifica.

Elliott Erwitt © Federico Bernini
Elliott Erwitt © Federico Bernini