Di Emilio Campobenedetto / foto dell’autore
Sul numero 114 di Witness Journal sarà presentato il lavoro di Emilio Campobenedetto che ha indagato le attività ospedaliere del presidio Umberto I° “ Mauriziano” di Torino fin dalle prime ore del lockdown che dal 9 marzo fino al 4 maggio ha paralizzato l’Italia causa pandemia da Sars-Cov2. A corredo del lavoro fotografico, Campobenedetto ha intervistato (per via telematica) anche il personale dell’ospedale per raccontarne non solo con le immagini, ma anche con le parole, l’esperienza nel pieno dell’emergenza.
Prima intervista: Dott. Renzo Brusca
Il dott. Renzo Brusca ha lavorato per vent’anni presso i reparti di Cardiochirurgia e di Cardiologia presso l’Ospedale Umberto I° “Mauriziano” di Torino.
Raccontami della tua esperienza sia come paziente sia come medico, visto che sei stato cardiologo per tanti anni, lavori ancora?
Certo, lavoro ancora, svolgo attività di consulenza nel Canavese un paio di volte la settimana anche se naturalmente ho dovuto interrompere per via del ricovero. Credo di ricominciare a lavorare tra luglio ed agosto.
Questo vuol dire che ti senti meglio. Potresti dirmi quando hai iniziato ad avere i primi sintomi della malattia?
La malattia ha iniziato a manifestarsi con una lieve febbriciola verso il 25 marzo. Il giorno dopo mi sono svegliato e la temperatura era salita a 39.5 ma non ci do molto peso, non ho mai avuto febbre in vita mia per cui prendo della tachipirina la quale fa scendere la temperatura a 37.5 ma il il 27 mi risveglio con 40 di febbre. Mi sento distrutto, stanchissimo, non sto in piedi. Ne parlo con mia moglie e decidiamo di seguire quel che dice il governo, mia moglie contatto il numero dell’emergenza ma non risponde nessuno. Decido di andare in ospedale Mauriziano dove ho lavorato come cardiologo per 20 anni. Lì mi hanno accolto immediatamente, mi fanno accomodare in sala d’attesa in una zona diversa dalle altre persone in attesa. Dopo il triage mi fanno il tampone che risulta positivo, l’esame radiologico mostra la presenza di una polmonite bilaterale. Subito il personale mi accompagna presso il reparto di osservazione, dove inizio subito una terapia antivirale, mi somministrano l’ossigeno nonostante la saturazione e i valori di ossigenazione del sangue vadano bene. Verso sera incontro il primario del pronto soccorso che mi dice che quella notte sarei stato loro ospite in osservazione così da monitorare la situazione. Quando mi sveglio il giorno dopo, la responsabile infermieristica mi comunica che dovrò essere trasferito in uno dei reparti di degenza Covid, il 4b, “Così ha un posto letto migliore rispetto a una barella”. Arrivato al 4b, mi sottopongono ad altri esami. Piano piano ho notato un progressivo peggioramento della mia situazione, soprattutto le notizie mi venivano dette in maniera molto molto soft da parte dei medici ed infermieri. Ho trovato molto bello questo modo di comunicare. Al terzo giorno di ricovero, mi comunicano che sarei stato trasferito presso il reparto di cure sub intensive Covid 4A. A quel punto mi sono insospettito… Tanto stavo male e tanto ero debole che mi hanno dovuto traslare dal letto alla barella, per poi essere trasferito. Nel nuovo reparto sono stato nuovamente sottoposto ad altri esami. Particolarmente difficile è stato per loro reperirmi una vena e l’arteria da dove poter effettuare gli esami del sangue e somministrarmi la terapia. Il fatto che mi ha sconvolto di più è stato quando alle 4 di notte passava il medico chiedendo chi dovesse fare il tanatogramma, questo perché ne morivano 1 o 2 per notte. Non è stata un’esperienza molto divertente. Più i giorni passavano, più la situazione peggiorava tant’è che durante la quinta o sesta giornata di ricovero, sono stato sottoposto a cicli di ossigeno-terapia col casco C-PAP sia di giorno che di notte.
La terapia col casco C-PAP è pesante da sopportare ma i risultati sono sorprendenti. Per prima cosa fa un rumore assordante tanto che risulta impossibile dormire, ho risolto questo problema con dei semplici tappi nelle orecchie. Un altro accorgimento era cambiare spesso la postura sedendomi a bordo letto facendomi aiutare dagli infermieri o coricandomi su un fianco. Purtroppo quando ho imparato questi accorgimenti non ne avevo più bisogno (ride). Per cui, riassumendo, tappi nelle orecchie e se si riesce, mettersi seduti a bordo letto e nel caso facendosi aiutare dal personale. Molto peggio sono le cannule nasali, che tendono a spostarsi molto facilmente ed è difficile rimettersele in sede da soli e sono molto fastidiose. La maschera di venturi e reservoire sono molto più sopportabili. Piano piano ho iniziato a stare meglio, ho iniziato muovermi, sono stato ricoverato in ospedale per un totale di 20 giorni dei quali sette passati in condizioni pessime. Quando sono stato dimesso a domicilio ho organizzato il mio studio a mo’ di abitazione temporanea così da poter passare il resto delle quarantena completamente isolato. In totale sono stato più di due mesi in malattia.
Molti pazienti con i quali ho parlato mi hanno riferito che tra le cose che le ha sconvolte di più è stato lo shock una volta entrati in pronto soccorso cioè la sensazione di ritrovarsi completamente soli, isolati dalle proprie famiglie, come se la vita precedente fosse stata spazzata via, hai provato anche tu la stessa cosa?
Io non ho provato queste sensazioni, intanto ho avuto dei compagni di stanza molto carini, ci si dava una mano l’un l’altro. Seconda cosa ho potuto stare in contatto con la mia famiglia tramite le videochiamate, in questo caso il telefono è stato fondamentale per mantere i contatti e non sentirsi abbandonato. La cosa pesante era lo svegliarsi al mattino capire che la situazione era in miglioramento se ti facevano un prelievo venoso, e se era in peggioramento quando ti facevano un prelievo arterioso. Queste procedure erano complicate dal fatto che ho delle arterie e vene bruttissime, per cui hanno dovuto pungermi più volte, soprattutto per quel che riguarda i prelievi arteriosi.
Questo perchè trattandosi di una tecnica cieca, bisogna basarsi esclusivamente sul tatto e l’inserzione dell’ago viene fatta molto lentamente.
Precisamente, tutto ciò nonostante usassero l’ecografo per andare a colpo sicuro. Però in quella situazione capivo che lamentarsi non era di alcun aiuto e comunque era un esame di estrema importanza ed andava fatto per cui stringevo i denti e sopportavo. Quello era il periodo in cui non si sapeva nulla ancora, sono stati molto bravi perchè hanno seguito la loro esperienza, se uno aveva la febbre, gli venivano somministrati la tachipirina, copertura antibiotici ed antivirali, protettori gastrici… insomma durante il primo periodo tappavano le falle proprio perchè non c’erano studi e protocolli da seguire.
Di conseguenza non hanno potuto far altro che impostare una terapia empirica
Precisamente. Hanno svolto un gran lavoro di equipe, erano sempre presenti, sempre col sorriso, sono stati bravissimi.
Quanto ti senti cambiato in questi mesi
Sono molto più ottimista, ci sono dei problemi che prima erano enormi e adesso li considero delle sciocchezze in confronto a quel che ho passato. Pensa che la quarantena per me è stata una conquista, mentre ho degli amici che si lamentavano di essere chiusi in casa da venti giorni. Come vedi dipende sempre da qual è la tua provenienza, se arrivi dalle vacanze allora ti arrabbi, se arrivi da un’ospedale gioisci.
Seconda intervista: Tiziana Blasi
Tiziana Blasi ha prestato servizio come infermiera presso la rianimazione che è stata creata per l’occasione (convertendo il blocco operatorio delle sale operatorie generali) che ha avuto a disposizione 8 postazioni. Gli altri servizi di rianimazione dedicati al trattamento dei pazienti Covid sono stati la Rianimazione generale e il così detto reparto polmone 17b, ottenuto dalla conversione di un reparto di cure sub intensive. In totale sono stati messi a disposizione del trattamento dei pazienti critici 24 postazioni di rianimazione, mentre altre 8 presso la Rianimazione cardiovascolare sono stati tenuti Covid free per poter gestire le emergenze dei pazienti non infetti.
Tu lavori da tanti anni presso la Rianimazione cardiovascolare dell’ospedale Mauriziano di Torino, ed all’inizio dell’emergenza Covid hai fatto parte del gruppo di infermieri che sono stati inviati a supporto dei nuovi reparti di rianimazione che sono stati creati per l’occasione. Hai scelto tu di andare o hai ricevuto un ordine di servizio?
No, ho scelto di andare su base volontaria. Mi sono resa disponibile per poter essere dislocata in un reparto di rianimazione in quanto è capitato che andassi per caso a fare un turno nelle sale operatorie generali quando sono state convertite in rianimazione Covid. L’esperienza mi è piaciuta e ho deciso di continuare a lavorare lì fino alla fine dell’emergenza. Sono rimasta perchè era tutto nuovo, bisognava ricominciare da zero anche nel formare l’equipe perchè dovevo collaborare coi colleghi delle sale operatorie, che seppur bravissimi e ottime persone, non erano però abituate a gestire un paziente di rianimazione e quindi ho sentito ancora di più che potevo dare una mano. È stato molto interessante non soltanto per via di questo paziente nuovo respiratorio instabile ma c’era anche tutta la componente dei colleghi da formare, che comunque facevano affidamento su di te. É stato stancante il doppio, perché dovevi sempre essere presente, disponibile sia coi colleghi in formazione che coi pazienti.
Questa tua ultima affermazione mi fa tornare in mente ciò che ho potuto osservare anche nelle altre rianimazioni Covid, cioè che il paziente di rianimazione Covid di per sè non è poi così tanto diverso da un paziente in isolamento per una qualsiasi altra grave polmonite.
La parte tecnicamente più complessa è stata sicuramente il fatto di dover pronare e supinare i pazienti, quella era la parte più faticosa dell’assistenza, però oggettivamente erano pazienti ventilati meccanicamente, sedati e curati quindi di per sè è un’assistenza più semplice. Con queste considerazioni non voglio però semplificare il lavoro di assistenza che un paziente simile necessita, non voglio far sembrare che non abbiamo fatto niente. Non è vero. Ma sicuramente è un’assistenza più semplice rispetto a quella che necessita un paziente di rianimazione cardiochirurgica. La grossa differenza rispetto ai pazienti cardiochirurgici che trattiamo abitualmente, è che i pazienti ricoverati nelle rianimazioni Covid potevano essere persone di qualsiasi età con qualsiasi tipo di patologie precedenti o assolutamente sani prima di recarsi in pronto soccorso per problemi respiratori. Quindi questo ti faceva ragionare quanto fosse difficile l’assistenza dal punto di vista mentale perché i pazienti potevano essere sia anziani che giovani.
Con questo vai a sfatare il mito che nei primi momenti della pandemia era dato per certo, quello del binomio Covid-19/paziente anziano, come dimostrato dal caso di un nostro collega cinquantenne che è stato ricoverato per problemi respiratori legati al Covid e che ha passato una settimana in terapia con casco C-PAP.
Assolutamante. I contagiati potevano essere di tutte le età, con o senza patologie concomitanti. Sotto certi aspetti data la paura iniziale, si tendeva a sottovalutare i sintomi. Magari si pensava di avere solo un influenza, ma nel momento in cui ci si rendeva conto che la cosa era più grave, in quel momento probabilmente la patologia era già a uno stadio troppo avanzato, e quindi avevano quasi sempre pazienti che venivano ricoverati da noi o nella Rianimazione generale o in rianimazione al 17b. Non è stato facile, non è stato facile per niente. Un altro elemento strano è stata l’assenza dei parenti. Di solito in rianimazione di solito sono un presenza costante, ma in questa situazione era strano che non ci potesse essere nessuno, soprattutto nel momento in cui un paziente moriva.
Per cui c’era tanta solitudine
Tantissima solitudine. Tant’è che capitava che ci ritrovassimo noi ad accompagnare il paziente alla morte, non soltanto dal punto di vista farmacologico, ma anche come sostituti dei parenti. Poi c’erano dei momenti in cui non riuscivi a essere presente quando il paziente stava morendo, perché l’attività era talmente frenetica che dovevi dedicarti a chi invece era ancora vivo, ai nuovi ricoveri e alle dimissioni di chi stava migliorando. Appena si liberava un letto veniva occupato da un novo paziente, non avevi il tempo neanche di pensare a quello che era successo, e forse sotto certi aspetti era meglio così. Se ci ragiono adesso a mente fredda, ora che quest’esperienza è finita, sto sperimentando l’effetto rebound. In quel reparto erano l’adrenalina e la frenesia del lavoro a tenermi attiva. Pensavo solo a quello che doveva essere fatto. In qul momento andava tutto bene, ma una volta che mi sono fermata il subconscio ha fatto venire a galla tutto quello che è successo. Inizi a pensare alle esperienze vissute.
Per cui per te, a livello emotivo, è più pesante adesso rispetto a quando lavoravi nella rianimazione Covid
In quel momento sei un professionista, con la testa, col cuore, non hai il tempo per ragionare su quello che sta succedendo realmente. Era tutto assurdo, era tutto assurdo perché alla fine ci si vedeva più tra di noi colleghi che con le altre persone quindi la tua vita in quel momento si declinava in casa-lavoro e lavoro-casa.
Come affrontavi il ritorno a casa, cosa facevi durante i tuoi giorni di riposo?
Io ero un’ameba, non c’era differenza di stress tra i turni diurni e quelli notturni. Io arrivavo a casa, mi facevo una lunga doccia con la quale scaricavo la tensione, ma non mi rimanevano le forze per pensare a qualsiasi altra cosa, quindi a malapena aprivo il frigo. Per quanto mi riguarda mi ero ridotta a pensare alle attività più elementari. Mi chiedevo: ho fame, non ho fame, ho sete? Mangio e bevo. Ho sonno? Vado a dormire. Stop. Una telefonata ai parenti. Io non avevo voglia di pensare. Non avevo voglia di comunicare.
Personalmente penso che ognuno di voi abbia provato una una cosa diversa, anche se credo che ci siano degli elementi comuni tra tutti quanti voi
Confrontandoci tra colleghi, tutti quanti abbiamo provato una sensazione di svuotamento, soprattutto alla fine di ogni turno. Mi è capitato di fare più turni dove non riuscissi a riposare. Non riuscivo a ragionare con lucidità, avevo al sensazione di annaspare, quindi quando era possibile riposare mi spegnevo, letteralmente. Tra l’altro un altro fatto riguardava l’argomento Covid che non rimaneva circoscritto all’interno dell’ospedale. Era ovunque. I tg non parlavano di nient’altro, i parenti e gli amici che mi chiamavano per sapere come andava, se era tutto vero. Capisco che fosse un modo per starmi vicino, a loro modo volevano sostenermi ma trovavo il tutto molto, molto pesante. Avevo la sensazione di non riuscire a staccare la testa dal lavoro.
Voglio provocarti, nel caso ti capitasse di discutere con una persona che nega tutte queste cose, una di quelle che se ne frega di indossare i dispositivi di protezione, scenderesti nei particolari, gli racconteresti cosa vuol dire essere ricoverati in una rianimazione Covid?
Assolutamente sì, naturalmente racconterei solo i dettagli che no ledano la persona ricoverata, però si. Quando però ti occupi di un paziente Covid per 12 ore, lo giri e lo rigiri nel letto, inizi a pensare e a dire ai colleghi: ”Ragazzi se dovesse succedermi, non mi fate niente, non trattatemi”.