Di Maddalena De Bernardi / Foto di Valeria Altavilla
Diana Guigli se n’è andata un giovedì mattina, il 25 maggio 2017. Era nata a Montefiorino il primo giorno di primavera, nel 1913. Quando l’abbiamo conosciuta aveva da poco compiuto 104 anni. Com’è vivere una vita lunga un secolo? Cento anni, un tempo che si misura nelle fiabe e che attraversa la storia, quella grande, fatta di eventi di portata incalcolabile, insieme ai fili delle piccole storie che sono la vita di ognuno di noi. Con lo stesso filo di tempo si tesse la trama del mondo.
Diana nasce il 21 marzo 1913, gli ultimi frammenti di pace prima dell’inizio della Grande Guerra. A Boccassuolo, frazione del comune di Palagano nel cuore dell’Appennino modenese, com’è la vita? In questo borgo di montagna, dove ogni casa ha gli occhi di una famiglia che si conosce da sempre, Diana vive l’inizio della sua esistenza: l’altra metà della sua vita sarà a Firenze, dove arriva giovanissima, come i tanti che mettono piede in città per cercare un mestiere e un pizzico di fortuna.
Si diceva così, un tempo: andare a servizio. Si partiva all’età di dodici o tredici anni, verso la città, dove si trovava lavoro come cameriere e camerieri, autisti e nanny, o cuoche. Spesso era una fra le sorelle la prima a partire, poi tutti gli altri a seguire non appena si fosse presentata l’occasione giusta: una mappa creata da contatti sussurrati con la voce del passaparola e una lettera di raccomandazione, spirito di avventura e qualche lacrima di malinconia nelle sere solitarie lontane da casa.
La montagna che si lasciava, curva dopo curva nell’ondeggiare lento della corriera, era viva e fatta di borghi illuminati: piccole osterie, tabacchi e botteghe con la merce stipata in scaffali alti fino al soffitto. Stanze abitate da famiglie numerose che poi lentamente si svuoteranno, quando negli anni dopo la ricostruzione il lavoro chiamerà sempre più gente nell’altrove di una geografia sconosciuta, alla ricerca di una vita differente, pur con il paese d’origine infisso come un chiodo nella memoria del cuore.
Cento anni sono passati e Diana sfoglia la carta sottile del quotidiano, seduta in poltrona in questa casa luminosa nel cuore di Firenze, dove ha abitato, in fondo, tutta la sua esistenza, quella di donna adulta e madre di famiglia, prima con un figlio poi con due: il primo strappato dall’esistenza troppo presto, anche se già padre; la figlia, quella nata negli anni complicati del dopoguerra e oggi già nonna felice, al suo fianco fino all’ultimo, attraverso le salite e le discese dell’esistenza. Un secolo, il Novecento, due guerre mondiali, un Paese e una vita ridotti in briciole dalle bombe, poi la ricostruzione e gli anni della famiglia, il lavoro come cuoca. L’arrivo, lento e inesorabile, di una modernità sempre più scintillante. Chi ha vissuto una guerra potrà mai davvero dimenticare del tutto?
“Ci si doveva dare da fare in quegli anni” dice lei, e scuote il capo. Sì, in fondo è così per tutti e vale in ogni epoca, perché la vita non è mai facile da portare sulle spalle. Bisogna farsi spazio, trovare il coraggio per camminare sulle proprie gambe, muovere i primi passi e respirare a pieni polmoni, trovare l’ossigeno necessario per stare in piedi, con fatica e a volte sgomitando, senza lasciarsi andare a un peso che a volte schiaccia e butta a terra. In ogni epoca vivere è una scommessa, perché significa imparare a scommettere sulla propria forza. Nulla è dato per scontato; nulla è facile o ovvio. In preda alla gravità, nel rischio perenne di perdere l’equilibrio faticosamente raggiunto, viaggiamo su questa terra precaria dove ognuno di noi, esseri umani in bilico, spaventati funamboli coraggiosi, ha le sue battaglie da combattere.
“Erano anni in cui si aveva paura” Diana ci guarda negli occhi, noi che non lo capiamo davvero. Sì, perché non possiamo dire di poter comprendere realmente, sulla pelle, che cosa significa essere in guerra e avere paura: un’immagine sconosciuta al di là dell’idea suggerita dalla grammatica che tutti conosciamo. Probabilmente, mentre ora leggi queste righe e di problemi certamente ne hai, non sai che cosa si prova a stare davanti a uno che ti punta il fucile contro. Non ti è mai capitato.
La maggior parte di noi non conosce la sensazione, e quali reazioni può scatenare, lo sguardo di quegli occhi dentro ai tuoi: occhi che minacciano, che possono decidere della tua vita. In una manciata di secondi ci sei e poi non ci sei più. La canna del metallo freddo come una promessa di morte. Il rumore e poi uno spazio bianco. Click ed è tutto finito. Quasi irreale. In quel frangente ognuno può trasformarsi in una persona diversa da quello che è, perché a emergere è una parte che non si fa notare nei giorni del quotidiano.
“Cinque minuti, la morte” urlavano i tedeschi quando arrivavano: cinque minuti, la morte. “Dicevano così i soldati quando arrivavano a perquisire le case. Si viveva con paura, in quei tempi”. Un terrore grande e totale, che rimane nelle vene di chi l’ha vissuto.
Durante una di queste perquisizioni, i soldati arrivano e mettono al muro Diana e la sua famiglia: “Sappiamo che i partigiani sono qui, diteci dove”. Il marito Sante si trova in Sicilia, chiamato alle armi, Diana nel frattempo è tornata al paese di sempre, nel cuore della montagna. Con il figlio che è ancora un bambinetto di pochi anni scappa a casa dei suoi. In tempo di guerra il vecchio mulino di famiglia, nascosto fra gli alberi, apre le porte ai partigiani e diventa un piccolo rifugio: lì c’è farina, calore, pane, vita.
“Trovateli. Se siete così convinti che ci siano, allora provate a trovarli”, dice lei a quelli in uniforme. Mentre lo racconta, a distanza di anni, è limpido e pacato lo sguardo di questa piccola donna alta poco più di un metro e qualcosa, conosciuta da tutti per il suo buon carattere. Leggera come l’ala di un passero, la gentilezza ribelle ha la bellezza intrepida delle cascate e il coraggio mite di chi sa camminare insieme alla propria paura guardandola dritto negli occhi. I soldati quella volta non trovano proprio nessuno. “Sapevo che il mulino era vuoto in quell’ora del giorno, i partigiani arrivavano di notte, protetti dal buio”.
E così uccisero i cani. Accadeva, spesso. Accade in tutte le guerre, una raffica improvvisa prima di andarsene. Gli animali di casa caduti morti in terra, una scia di sangue e il rosso che schizza via dalla carcassa magra mentre le pupille si chiudono. L’ultimo dispetto di fronte allo sguardo sorpreso, pupille più umane di un umano, in una domanda muta destinata a rimanere senza risposta. Della guerra, in ogni tempo, rimane soprattutto questo, l’irreparabilità dell’orrore senza un perché.
Il 25 aprile 1945, quando viene proclamata la liberazione, Diana si trova insieme al figlio e al marito Sante, che nel frattempo è riuscito ad attraversare tutto lo stivale, un po’ su treni di fortuna, un po’ a piedi, fino a questo borgo nell’Appennino modenese a poca distanza dalla linea di confine fra Emilia Romagna e Toscana. Questo sembrava uno di quei luoghi che la guerra non può toccare, borgate di case fra i boschi dove i sentieri di foglie conducono a crinali che vivono in un silenzio rarefatto. Invece, lungo la Linea Gotica nell’Appenino tra Bologna e Modena si scriverà una storia fatta di combattimenti e morti, da entrambe le parti. Nell’oscurità senza fine della notte risplende, per settimane, il bagliore cupo degli incendi e i colpi sordi degli spari mentre le travi di legno dei soffitti di casa cadono bruciando, dati alle fiamme.
La cartolina della ritrovata libertà è quella di una bicicletta in viaggio verso un futuro sconosciuto. Quando viene annunciata la fine della guerra Sante e Diana ripartono alla volta di casa loro, con una bicicletta e il figlioletto sulla canna, pedalando. “Non si voleva dare noia, ma la si dava lo stesso”: ci vorranno tre giorni per arrivare in bicicletta fino a Firenze, dove avevano lasciato casa e cose, chiedendo ospitalità per strada, là dove si fermavano. “La gente non aveva niente e non si sarebbe voluto dare disturbo aggiungendo un pasto in più a una tavola già difficile, un pasto e un letto per cui non si poteva pagare. Non si voleva disturbare chiedendo, ma lo si faceva lo stesso”.
Quando la vita ci costringe a chiedere, sentiamo che il nostro ingombro facilmente rischia di diventare peso sgradito: siamo noi per primi a preoccuparcene. Accade in ogni epoca e per ironia della sorte si ripete nel destino del singolo, quando ci si ritrova costretti ad appoggiarsi agli altri, magari per l’età o a causa delle vicende della vita, troppo vecchi e deboli per sorreggerci da soli. Eppure, dare il disturbo, e prenderselo, a volte è necessario: necessario per sopravvivere, non solo. È necessario per continuare a coltivare l’umano che è in noi. La lingua italiana, che nella parola “ospite” indica sia chi dona, sia chi accetta ospitalità, attraverso la generosità insita in questo vocabolo ci ricorda che in fondo l’esistenza è sempre uno scambio. Nello stesso modo, con uguale attitudine, si dà e si prende. L’esistenza si manifesta nel flusso di un ciclo che è dare e avere, imparare ad accettare e saper offrire: osmosi costante mai definitiva.
Dare e prendersi il disturbo per… ritrovare, agire e ricevere, contribuire, costruire, chiedere aiuto e dare un umano, riconoscere l’altro in noi e noi nell’altro. Lasciarsi accompagnare, proteggere ed essere protetti, accogliere. Vivere con generosità, senza farsi mai mancare un sorriso. Trovare scampo: una salvezza che passa nelle mani nostre e altrui, senza appartenere ad alcuno che non sia la vita stessa.
Perché dare disturbo a volte è un diritto.
“Mai più la guerra, mai più”: lo sguardo limpido di questa ragazza di cent’anni è una promessa di pace. Attraverso le montagne dell’Appennino, condividendo una sera davanti al focolare con famiglie che non si conoscevano e che non si sarebbero mai più riviste, si mastica la ritrovata libertà, si sfida la distanza. Con due ruote e di nuovo il cuore in gola, questa volta di resistenza e allegria, ci si lancia per strade scavate fra le rocce. Un viaggio incredibile, guardando la realtà intorno, distrutta: un mondo che inizia a stropicciarsi gli occhi e svegliarsi dall’incubo, senza sapere, ancora, che direzione prendere. Da qualche parte, si andrà. Si faranno di nuovo promesse d’amore davanti all’alba, mentre una nuova vita già palpita, promettendo speranza: la paura resta un brivido nelle ossa che ancora si fa sentire, ma il cuore è un tamburo che batte. Di nuovo in movimento, ancora una volta. Rialzarsi in piedi, senza temere il vento. Lo sguardo verso l’orizzonte e un sorriso al sole che rinasce.