
Di Alessio Chiodi / foto di Valeria Altavilla, Alice Arduino,
Matteo Bergami, Vittorio Giannitelli,
Malì Serena Aurora Erotico,
Pietro Medici, Rossana Messana,
Giulietta Palombarini e Francesco Trondo
Negli ultimi mesi sui social sono esplosi filoni di foto domestiche per raccontare la vita durante la quarantena per Covid-19. Voglia di riscoprire spazi conosciuti ma che ora si permeano di significati nuovi, una percezione del tempo che scorre più lentamente, riti quotidiani dati per scontati e che ora diventano rituali apotropaici per allontanare uno dei tanti mali che attanagliano la nostra vita nell’anno 2020. La redazione di Wj non è stata insensibile a questa prolificazione di lavori. Anzi. Ha ricevuto tanti lavori, soprattutto di soci e simpatizzanti e di fotografi affermati e si è messa al lavoro. Legati da un filo rosso unico, le ispirazioni fotografiche indagano non solo i cambiamenti umani all’interno di spazi certamente intimi, sicuri e ospitali, bensì il cambiamento del rapporto tra l’uomo e lo spazio stesso. Niente è più come prima. La casa è diventato un luogo in cui espletare tutte le nostre funzioni sociali, le medesime, seppur ridotte, che prima si proiettavano fuori, all’esterno, sulla strada.

Gli spazi della socialità
“Vivere questo periodo di isolamento forzato comporta per ognuno di noi fare i conti con delle limitazioni sia fisiche che emotive. Rinunciare a un certo tipo di socialità a cui eravamo abituati è necessario ma faticoso e, da un certo punto di vista, potrebbe anche portarci a elaborare diverse riflessioni rispetto alle forme su cui abbiamo basato finora certi aspetti delle nostre relazioni”, affermano Valeria Altavilla e Vittorio Giannitelli da Bologna. “La distanza ci fa riscoprire la necessità dell’altro come soggetto necessario a creare la dimensione di un “noi” capace a sua volta di proiettarci fuori dai nostri ‘io’”. Ma c’è di più. “In questo senso, non solo la ridefinizione dei momenti di socialità attraverso le connessioni telematiche di cui, per fortuna, siamo dotati, ma anche la riscoperta di terrazzi e balconi come oggetti attraverso cui interfacciarsi con l’altro, creano un’interlocuzione tra interno ed esterno che non è basata solo su una dimensione fisica.

Gli schermi di computer, tablet e smartphone. Una finestra aperta su un cortile condominiale in periferia. I corpi che si dispongono all’interno della texture creata dai terrazzi della palazzina di fronte. Sono tutti elementi della nuova forma di rapporto di cui stiamo scoprendo la necessità o di forme di interazione dimenticate a causa della vita frenetica a cui ognuno di noi è obbligato all’interno di una società basata sul modello neoliberista di produzione e riproduzione”.
Destrutturare e ridimensionare
Anche Matteo Bergami ha dovuto lavorare su se stesso e il suo modo di fotografare. “Abituato a spostamenti continui per lavoro e per i miei vari viaggi , abituato a fare fotografia dinamica, street, persone, nella totale inconsapevolezza della mia e della nostra libertà mi sono adattato per la sopravvivenza a questa situazione esplorando nuovi contesti.

Arricchendo la mia cultura fotografica e cinematografica, ho iniziato a tradurre le immagini secondo la mia visione. Mi sono trovato costretto come tanti al tempo del Covid-19 a destrutturare le mie prospettive per ridimensionarle. La costruzione di immagini plasma nuovi movimenti e ridefinisce il concetto di libertà. La volontà di agire resiste, lo spazio crolla ed anche un respiro, quanto di più scontato soffoca. Che di scontato non c’è nulla , tantomeno la libertà”.

Tanto tempo e poco spazio
In riferimento al tempo (non solo quello in cui siamo chiusi in casa, ma della percezione dello stesso), parla Rossana Messana che vive questo lockdown come un’inversione di tendenza nella nostra sensibilità spazio-temporale:

“Prima della pandemia ci trovavamo ad avere pochissimo tempo e tantissimo spazio, adesso abbiamo tantissimo tempo e poco spazio. La fotografia è strettamente legata al tempo, è tempo che rimane fisso nelle immagini. Questo rallentamento obbligato aiuta il fotografo a riappropriarsi del suo tempo; lo aiuta a riprendersi quello spazio necessario per una pulizia dello sguardo, facendo posto ad una riflessione più profonda che purtroppo non è sempre possibile”.

Ai due lati dell’obiettivo
Alice Arduino, per sua stessa ammissione, predilige invece, sdoppiarsi in fotografo e soggetto ritratto, come avviene nei selfie. “Il mio racconto – dice – viene realizzato con un punto di vista soggettivo. Le foto fatte sono selfie. Sono io che fotografo me stessa, i miei movimenti o gesti. Non c’è un occhio esterno che lo fa e mi segue”.

E questo prevede il dover pensare e realizzare che ogni tua azione può diventare un’immagine e come tale porre una maggiore attenzione a quello che fai. Devi sdoppiarti e immaginare che sia tu stesso a farti una foto come se fossi staccato da te. Il braccio diventa la distanza con cui ti narri. Da vicino. A un metro di distanza. Lo stesso, guarda caso, stabilito dal decreto per le norme di sicurezza pubblica tra persone”. L’autrice riprende un concetto storico della fotografia, ossia quello di testimoniare dei fatti e documentare un cambiamento. “Se gli eventi si modificano anche la nostra percezione del tempo e dello spazio cambia. Il compito della fotografia è creare archivi di immagini che possano essere una testimonianza del cambiamento”.

La quotidianità
Secondo Pietro Medici a cambiare è stato soprattutto il nostro rapporto con la quotidianità e con i gesti semplici che prima davamo per scontati. “Il rapporto con lo spazio che ci circonda e con gli oggetti di uso quotidiano penso sia cambiato nel momento in cui è diventato l’unico spazio da vivere in una sollecitazione emotiva in cui siamo tutti coinvolti e da cui nessuno può nascondersi; questo – continua l’autore – ci ha portato ad avere più tempo per notare gli oggetti vecchi e nuovi (penso ad esempio alle mascherine) che abbiamo in casa, (ri)scoprendone alcuni fondamentali ed altri superflui, riflettendo su ciò che è davvero importante e su ciò che invece lo è solo perché cerchiamo di riempirci la vita con troppe cose”.

Misurare le distanze
C’è anche un aspetto ulteriore che Medici sottolinea. In quanto insegnante di una scuola superiore, in questi mesi si è dovuto confrontare con l’insegnamento online a causa della chiusura delle scuole. Senza entrare nel merito delle tecnologie che lo rendono possibile, Medici ha voluto scattare una foto ai suoi studenti riunitisi durante una lezione. “La fotografia che ho fatto ai miei studenti durante una videolezione assume sicuramente un significato particolare in quest’ottica; una parte del mio mondo e della mia vita, fatta di interazione con gli altri, di empatia, di rapporti umani che si rinnovano ed evolvono nel quotidiano, ha subito un cambiamento eccezionale. Quello che prima era puramente uno strumento di lavoro freddo e senz’anima, il computer, è improvvisamente diventato il mezzo indispensabile con cui tenere vivi questi rapporti”.

Un’idea simile (per concetto) è venuta a Francesco Trondo con il progetto “Quarantine, love and photography”. Trondo spiega che il progetto è nato in “questi giorni di pandemia, destinato a quelle coppie di clienti e di amici che si ritrovano costretti a rinviare il proprio matrimonio o il servizio fotografico in dolce attesa. Per restare vicini ho pensato di realizzare questo piccolo servizio fotografico restando comodamente a casa in videochiamata”. Anche qui la tecnologia corre in aiuto per sopperire alle distanze e l’obiettivo diventa la webcam del pc.

Curioso e interessante il lavoro “Travelingathome: il mondo in una stanza” di Malì Serena Aurora Erotico che con un pizzico di fantasia propone viaggi esotici nella propria casa, ridisegnando gli spazi, il tempo e le distanze. “Da instancabile viaggiatrice quale sono dopo una settimana di clausura in solitaria ho cominciato a immaginare come poter continuare a viaggiare nonostante l’impossibilità di muovermi da casa. Così ogni ambiente del mio appartamento è stato trasformato in una meta turistica.

Il bagno è diventato una sontuosa piscina dorata negli Emirati Arabi (simbolo dell’opulenza) dove sorseggiare un buon cocktail, l’angolo delle piante in salotto il Jardim Botanico di Rio de Janeiro dove leggere un bel libro sotto le fronde tropicali, la cucina un rinomato ristorante parigino dove fare una cenetta romantica con un partner immaginario, l’armadio a specchio e una sedia con le ruote si sono trasformati per magia in un bel giro con la decapottabile al tramonto sul lungomare di Montecarlo, mentre il corridoio il Mekong dove grazie a un quadro rettangolare ho potuto navigare e pescare ed infine le candide lenzuola sul letto il manto nevoso delle Alpi svizzere dove esercitarmi con lo snowboard.”

La scelta di cosa ritrarre
In termini più ampi si esprime Giulietta Palombarini. “Quando ancora si poteva uscire potevamo scegliere dove andare a fotografare e chi fotografare, da quando la quarantena è iniziata la possibilità di scelta dei soggetti e dei luoghi si è ridotta. Così ho potuto imparare a dare più rilevanza ad oggetti e situazioni che prima non ritenevo interessanti.

La foto che ho scattato a mio padre mentre apparecchia un piccolo tavolino in balcone penso esprima bene questo concetto. Una volta l’avrei ritenuta una foto scontata di un’azione abituale mentre ora penso che rappresenti diverse cose, ad esempio come si è imparato ad accudirsi l’un l’altro con più cura e tempo durante questi lunghi giorni di convivenza”.