Silvia Lelli è nata a Ravenna e termina gli studi a Firenze. Si trasferisce a Milano nel 1974, e da allora opera esplorando le performing arts e le musiche soprattutto, producendo fotografie e organizzandole in esposizioni, installazioni e pubblicazioni. Assieme a Roberto Masotti ha sviluppato un’attitudine per la scena, e lì si sono espressi in più occasioni anche tramite il video verso il multidisciplinare. Hanno inoltre dedicato lavori alla natura, al paesaggio e ai teatri in Italia, ai direttori d’orchestra, a John Cage, al pianoforte. Il loro vasto archivio è fonte inesauribile per l’editoria e la produzione discografica. Loro opere sono presenti in collezioni pubbliche e private. Collaborazioni con: Orchestra Filarmonica della Scala, dalla fondazione nel 1982, Festival del Quartetto e Premio Borciani di Reggio Emilia, Festival MITO/Milano,Teatro dell’Opera di Roma, Ravenna Festival, Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, Festival di Salisburgo
di Sofia Panseri
Silvia, ti senti legata al tuo territorio d’origine?
Mi sento piacevolmente divisa tra il Trentino e l’Emilia Romagna, luoghi d’origine rispettivamente di mia madre e di mio padre. Amo molto la montagna perché l’ho vissuta fin dall’infanzia e mi sento legata a Ravenna, città in cui sono nata e in cui ho vissuto fino a diciotto anni. Nel ’68, finito il liceo, cominciai a sentirla stretta, soffrivo, e mi trasferii a Firenze. Adesso è un piacere tornare e riscontrare che è cresciuta tantissimo dal punto di vista culturale, come tante altre cittadine di provincia. Ho un ricordo molto bello di uno spettacolo di Pirandello, I giganti della montagna, che davano al Dante Alighieri; ero andata a vederlo con una mia amica, sedevamo nel loggione. Che emozione entrare a teatro! Ogni volta che ne varchi la soglia ti immergi in una dimensione altra, graviti all’interno di una misteriosa monade che vive di vita propria. Non è solo lo spettacolo in sé a “fare” il teatro, ma anche la struttura fisica del luogo, le luci che investono la platea e che la caricano di attesa. Il teatro all’italiana poi ha una conformazione particolarmente avvolgente ed è concepito in modo tale che anche l’edificio contribuisca alla magia della rappresentazione.
Quali teatri hai fotografato?
Ho fotografato tantissimi teatri in Italia, scatti confluiti in un secondo momento nella raccolta La vertigine del Teatro. Fotografie di Lelli e Masotti. Tra i più grandi, il San Carlo di Napoli, il Petruzzelli di Bari, il teatro dell’Opera di Roma. Esistono poi delle realtà minori, ugualmente meravigliose, come il teatro Dante Alighieri di Ravenna, il teatro Verdi di Busseto, il teatro di Ferrara, il teatro di Brisighella. Il teatro Massimo di Palermo, che può vantare uno dei palcoscenici più grandi d’Europa, mi colpì per l’inusuale quanto ingegnoso sistema d’areazione. Era giorno, entrando in teatro notai che la luce filtrava all’interno. Rivolsi gli occhi al soffitto e mi accorsi che il rosone era leggermente ribassato. Mi informai. Si tratta di un meccanismo architettonico concepito nell’ottocento per risolvere il problema della calura estiva – particolarmente opprimente in una città come Palermo – che consente il ricircolo dell’aria. Ne rimasi affascinata e, ovviamente, lo fotografai.
E la Scala…
Sono stata fotografa ufficiale della Scala con Roberto per diciassette anni, intensi e meravigliosi…Spesso capita che i ragazzi mi chiedano dove ci si debba mettere per fotografare in teatro. Sicuramente ci sono delle posizioni più canoniche, come il centro platea per esempio, ma non esistono posizioni sbagliate in assoluto. Bisogna avere chiaro in mente ciò che si vuole mostrare e agire di conseguenza affinché la fotografia traduca quella visione. Chiudere il diaframma, ancor prima di essere una scelta tecnica, è un gesto che traduce un’idea: se chiudo il diaframma voglio dare importanza a quel che c’è in primo piano e a quello che c’è sullo sfondo; se lo apro, voglio trattenere la figura e isolarla dalla cornice entro cui si muove. Essere mobili nel pensiero e nell’azione è fondamentale.
Lelli e Masotti, compagni nella vita e nel lavoro, fotografi ufficiali della Scala, avete raccontato tramite la fotografia, per oltre quaranta anni, il mondo della musica e delle performing arts. Mi parli del rapporto con Roberto?
Conobbi Roberto nel 1966, a Ravenna. Eravamo entrambi molto giovani, io avevo sedici anni e lui diciannove. Capita spesso che mi chiedano come siamo riusciti a stare insieme così a lungo e, riflettendoci, soprattutto ora che è mancato, direi che la forza del nostro rapporto consistesse nell’avere uno sguardo comune sulla vita. Nel quotidiano, l’accordo era profondo ed eravamo in sintonia su come vivere le cose. In questa cornice di naturale affinità, amavamo le differenze e il confrontarci su di esse era incredibilmente arricchente. Venivamo dalla stessa città, e ci spostammo a Firenze per studiare: due percorsi simili ma diversi, lui in industrial design e io in architettura. Quelli nel capoluogo toscano furono anni intensi in cui cominciammo a seguire le performing arts. Roberto era interessato alla musica jazz e al pop-rock, io all’avanguardia teatrale, il teatro off off, il teatro di strada etc. Un gran fermento inondava e metteva in dialogo diversi ambiti culturali e questo era particolarmente evidente a Milano, città in cui decidemmo di trasferirci nel ’74. Qui lavorammo per un paio d’anni al Festival Parco Lambro, uno dei primi progetti comuni. Il lavoro era stimolante, le idee tantissime…fotografavamo in contemporanea assecondando le nostre personali inclinazioni, le nostre passioni. La divisione tematica o tecnica dei compiti non ci apparteneva: non ci ponevamo limiti invalicabili oltre i quali subentrava l’altro. Si trattava di un’improvvisazione orchestrata che volgeva ad un intento comune. Conoscevamo molto bene i reciproci punti di interesse e di contrasto: io non fotografavo il jazz ma mi piaceva ascoltarlo, Roberto non fotografava il teatro ma era contento di venire con me a vedere gli spettacoli.
Il nostro modo di lavorare e di essere è ben rappresentato in Musiche, una mostra che si è tenuta a Palazzo Reale nel 2019, in cui abbiamo avuto la possibilità di ripercorrere il nostro lavoro e di ricollocare all’interno di un progetto una serie di scatti raccolti nel tempo e realizzati il più delle volte per iniziativa personale. La curiosità ci ha sempre guidato ed è stato il motore trainante delle nostre fotografie, non volevamo perderci nulla e spesso il problema era trovarsi in due luoghi contemporaneamente. Era bello raggiungere Roma o Torino o Parigi, pronti a scommettere che lì avremmo trovato qualcosa di sorprendente. Allora era normale uscire dalla Scala e correre in via Dini a fotografare un ancora poco conosciuto Bob Wilson. Molte volte ci siamo trovati tra le mani fotografie di artisti agli albori della loro carriera e che solo in un secondo momento sarebbero diventati grandi. Probabilmente la ricchezza del nostro archivio è scaturita da questa nostra volontà di ricercare e di esplorare ad ampio raggio, senza i vincoli di una finalità predeterminata.
Siamo stati molti fortunati, abbiamo potuto perseguire ciò che ci piaceva ed avere una famiglia, cosa a cui non avremmo mai rinunciato. Quando sono arrivati i figli, ricordo di avere avuto un sonno feroce per anni; è stato difficile, ma non abbiamo mai smesso di supportarci reciprocamente. Degli ultimi anni passati insieme ricordo un momento – a casa non si parlava mai della malattia – in cui Roberto mi guardò e mi disse: “Silvia… io ho vissuto”. Fu bello sentirglielo dire. Ad oggi, guardando indietro, anche io posso dire di essere contenta di aver fatto tanta fatica: perché risparmiarsi, per una ruga in meno?
Come sono stati i tuoi anni settanta?
All’inizio degli anni ’70 mi formavo come architetto, a metà mi trasferivo a Milano e sul finire del decennio, nel ’79, iniziavo a lavorare per la Scala. Di questi anni mi piace ricordare la collaborazione con Musica Viva, una rivista di musica classica diretta da Lorenzo Arruga, giornalista, critico, musicologo, una persona importante per il mio percorso. Mi fece comprendere meglio il mondo della musica classica e mi fece capire quanto profondamente la parola riesca ad influenzare l’ascolto. I grandi direttori di orchestra infatti sono soliti durante le prime prove, chiamate letture, leggere insieme ai musicisti lo spartito e spiegare a parole determinati passaggi. É un lavoro d’interpretazione fondamentale che ha sempre aiutato tantissimo anche me. Se per esempio, un direttore parla di un momento d’attesa, interiorizzo questa espressione che rivela la sua peculiare lettura dell’opera e, come fotografa, devo sapere cogliere e restituire in immagine quell’intervallo di sospensione. Comprendendo a fondo il libretto riesco a sartorializzare un ritmo fotografico adatto alla restituzione della visione creativa di chi dirige lo spettacolo. A livello professionale, Lorenzo contribuì a far conoscere il mio lavoro: grazie alla visibilità che mi diede, il mio nome arrivò alla Scala.
Tra i registi con cui hai lavorato, qualche affinità elettiva? Qualche contrasto costruttivo?
Strehler non era un regista che sentivo molto vicino alla mia sensibilità. Lo consideravo molto tradizionale e io preferivo il teatro di ricerca, qualcosa alla Bob Wilson per intenderci. In un secondo momento, dopo aver seguito diversi spettacoli, Le nozze di figaro, Così fan tutte, Don Giovanni, rimasi rapita dal suo modo di lavorare. Era anche un regista abilissimo nel lavorare con le luci e con le ombre: fotografare il suo buio era una sfida tecnica e interpretativa elettrizzante. Era geniale.Agli antipodi di Strehler, anche se ugualmente potente e creativo, Ronconi, un regista a cui mi sentivo più affine. Un giorno seguivo le prove di Norma, e lo vidi immerso in una solitudine pensosa, seduto al centro della platea, in silenzio. Decisi di fermare quell’attimo così rivelatore della sua persona in una fotografia che ora fa parte della raccolta Ritratti senza posa.
Ronconi concedeva pochissimo all’immagine, il suo era un teatro più introspettivo, più legato alla dimensione testuale che a quella visiva. Era molto difficile catturare il suo universo creativo, restituire il suo mondo senza banalizzarlo, mettendo in evidenza la profondità del suo pensiero. Era una persona estremamente discreta e in questo ci somigliavamo. Sembrava non dare importanza alle fotografie che scattavo, ma sapevo che chiedeva di me quando c’era da fotografare e questo era un bellissimo segno d’apprezzamento e di riconoscimento. Nacque un’ amicizia sincera fondata sul rispetto e sulla reciproca stima.
Che rapporto hai con la danza? Mi sembra che nelle tue fotografie ti interessi più la dimensione plastica che quella dinamica…
Il primo scoglio che ho dovuto superare quando ho cominciato a fotografare la danza è stato di carattere tecnico. Devi conoscere i rudimenti della disciplina ed essere consapevole della natura paradossale dell’impresa: fermare ciò che vive di movimento. In un secondo momento, una volta raggiunta una certa padronanza dell’immagine, mi sono concessa soluzioni stilistiche che, all’inizio, consideravo sbagliate. Ricordo quel giorno in sala prove, in cui Roland Petit intercettò questo mio desiderio di sperimentazione. Stava provando una coreografia con Carla Fracci e Massimo Murru. Mi sentivo inquieta e desideravo agire la fotografia in modo differente. A un certo punto mi disse “Silvia ho finito…ora puoi andare avanti tu”. Fui libera di muovermi tra i ballerini, di spezzare la figura intera in una collezione di gesti, di sfocare la loro fisicità per mostrare la leggerezza delle movenze. Quando fotografi la danza hai la pretesa di congelare un attimo che nel pensiero è memore di ciò che lo ha preceduto e rivelatore di ciò che lo seguirà.
Coreografi che ti piacciono?
Innanzitutto Pina Bausch che ho avuto modo di fotografare più volte, e con lei altre allieve della Scuola di Essen tra cui Reinhild Hoffmann e Susan Linke. E poi Forsythe, un coreografo che è stato in grado di rinverdire alcuni schemi della danza classica e che è rappresentativo di una serie di coreografi venuti successivamente. Tra gli italiani, Virgilio Sieni.
Ti piace Milano? Cambieresti Milano con qualche altra grande città europea?
Amo Milano. È una città che ti dà grande libertà e ampia scelta. Se ho voglia di immergermi nella vitalità della folla raggiungo a piedi piazza Duomo; se invece il desiderio di pace e raccoglimento si fa urgente posso godere del silenzio delle sue chiese. Mi piace sostare nelle chiese, riconnettermi con me stessa nonostante non sia credente. Non cambierei Milano con un’altra città europea… l’avrei cambiata forse con Tokyo. Quando visitai questa città giapponese nel 1981, rimasi folgorata dai suoi contrasti. Potevi ancora vedere le donne passeggiare per la città in kimono, meravigliosi frammenti di storia che convivevano con gli imperativi della modernità. Se non avessimo avuto la collaborazione con la Scala mi sarebbe piaciuto rimanere più a lungo.
La tua fotografia ha anche una dimensione documentativa… come coesiste questo aspetto con quello più prettamente artistico?
Laddove esiste la dimensione documentativa, questa è sempre inscindibile da quella interpretativa. All’interno di uno stesso lavoro si possono sempre scegliere immagini più “oggettive”, ma è un processo a posteriori, la documentazione non è il fine che mi guida.
Progetti futuri?
Negli anni settanta ho seguito a lungo le performing arts in diverse città di Italia; ho fotografato tanti artisti tra cui, Il Carrozzone, Demetrio Stratos, Giuseppe Chiari, Reese Williams, Bryars Gavin… Recentemente il Mambo di Bologna mi ha interpellato perché era alla ricerca di materiale che documentasse la settimana della performance tenutasi a Bologna negli anni 1977-1978. Abbiamo selezionato dall’archivio una cinquantina di fotografie che andranno a far parte della collezione permanente del museo. A questo processo di acquisizione delle immagini seguirà la pubblicazione di un libro…
La fotografia è di genere?
Non so se esista una fotografia al femminile. Forse alcuni temi – come l’esplorazione dell’intimità – ci interessano di più e abbiamo una maggior attitudine all’introspezione. A questo proposito mi viene in mente Francesca Woodman. Gli artisti uomini sono sicuramente più rappresentati nella storia dell’arte ma, da Artemisia in poi, lentamente, anche noi donne abbiamo cominciato a reclamare uno spazio in cui poterci esprimere. Quando iniziai a fotografare, le fotografe a Milano si contavano sulle dita di una mano: Carla Cerati, Giovanna Borgese, Maria Vittoria Backhaus. Adesso ci sono tanti nomi interessanti, abbiamo maggior consapevolezza del valore del nostro lavoro e maggior coraggio e determinazione nel portarlo avanti.
A cura di Sofia Panseri