Protagoniste | Patrizia Riviera

PROTAGONISTE una rubrica di Witness Journal, curata da Sofia Panseri, dedicata alle donne fotografe. Uno spazio per conoscere storie, progetti e pensieri sulla fotografia e sul mondo del reportage.

Foto di Patrizia Riviera - Liberation Madness

Di Sofia Panseri

Patrizia Riviera è nata a Milano nel 1956. Ha iniziato a fotografare nel 1992 frequentando la scuola “Donna fotografa” di Giuliana Traverso. Si definisce una fotografa fine-art con influenze espressioniste e pittorialiste. Fotografa per descrivere il lato emotivo della realtà, più che quello oggettivo, e usa la fotografia per raccontare una storia personale, intima. Parallelamente alla fotografia fine-art ha anche affrontato tematiche di reportage sociale, destinate alla pubblicazione di libri, si è interessata soprattutto all’emarginazione, alla solitudine, al senso di non appartenenza di tutti coloro di cui generalmente non si parla, di coloro che non contano.

Come sei approdata alla fotografia?

C’è un episodio particolare della giovinezza che ha segnato il mio rapporto con questa pratica: l’aver perso, a ventun anni, tutte le mie fotografie. Da quel momento in poi, e per molti anni, non ho più voluto che i ricordi della mia vita fossero condensati in uno scatto e ho scelto di sottrarmi alla rappresentazione lasciando semplicemente che la vita scorresse. Mi sono riavvicinata alla fotografia grazie a mio marito: un giorno tornò a casa con una Polaroid Instamatic e un anno dopo con una compatta. Più tardi vidi il manifesto che pubblicizzava il corso per donne fotografe di Giuliana Traverso. Ricordo che, intimorita, chiesi a mio marito: “e se mi prendesse troppo?”.

Il primo anno eravamo un gruppetto di venti ragazze che si riunivano, la sera, una volta alla settimana. Giuliana ci proponeva svariati temi con cui confrontarci – uomo con il giornale, vita col compagno etc – voleva che scattassimo in bianco e nero e ci chiedeva di stampare tutto in 9×12, formato più piccolo, rispetto al “più standard” 10×15. Si assicurava che sviluppassimo tutte le fotografie, le portava a casa a Genova in un voluminoso pacchetto e con pazienza le passava in rassegna una a una apponendo sul retro da zero a tre crocette. Era un modo efficace per esprimere il suo grado di apprezzamento e per guidare il nostro sguardo. Le immagini che preferiva non erano mai belle in maniera “classica”. Aborriva le cosiddette foto-cartolina: un bel paesaggio rubato a una gita fuori porta non riceveva nemmeno una crocetta.

Dopo il primo anno, per chi voleva e poteva proseguire, seguiva un  corso avanzato a tempo indeterminato al mattino. Nel 95′, dopo tre anni con Giuliana Traverso, avveratisi i miei timori di eccessivo coinvolgimento, abbandonai il mio lavoro di agente di commercio pubblicitario e mi dedicai alla fotografia completamente. Avevo 39 anni.

Ci sono dei temi o delle soluzioni formali che ricorrono nella tua fotografia?

La mia fotografia ha due anime: una più intima e personale che scaturisce da un’urgenza espressiva e una più professionale legata alla dimensione del  reportage e della rappresentazione dell’altro.

In Unsure feelings, uno dei miei primi lavori, parlavo della mia insicurezza cercandola negli altri: mi avvicinavo alle persone fino a provocare una reazione difensiva, la stessa che si dispiegava nel mio universo interiore di fronte alla paura del vivere e all’incertezza. L’eccessiva vicinanza deformava i volti svincolandoli dal referente reale e rendendoli simboli del mio stato d’animo. Nel reportage, la mia sensibilità e la mia visione del mondo permangono ma sono ancorate alla necessità di una restituzione dignitosa dell’altro, compito abbastanza delicato per chi come me sceglie come soggetti gli ultimi, gli emarginati, i fragili.

Dopo quasi vent’anni, ho concluso La liberazione dalla follia, in cui affronto e cerco di superare lo stigma della malattia mentale. Dal 2003 tengo laboratori fotografici destinati a malati psichiatrici in un’ottica di inclusione sociale. Ho trascorso molto tempo a contatto con queste persone, seguendole anche in un bellissimo viaggio in Patagonia. Mi sono accorta di come l’esclusione generi sofferenza e di come questa scompaia durante i laboratori: qui hanno la possibilità di diventare soggetti attivi, capaci di comunicare attraverso il mezzo fotografico. Non è sempre facile trovare il modo adatto per entrare in relazione con loro, chi soffre di malattie psichiatriche ha numerose “resistenze” che ostacolano il fluire armonioso della loro vita, ma, quando ci riesci, sei pienamente ripagata: quando fotografano per te, quando realizzano un disegno per te, lo fanno perché ti vogliono bene. Ti regalano l’affetto più autentico.

Foto di Patrizia Riviera – What Are You Looking For

A cosa stai lavorando?

Sto lavorando ad Anitya, “impermanenza” in sanscrito. Negli ultimi anni mi sono rotta il femore, il mio matrimonio è finito, ho perso mia madre, mio padre e la mia cagnolina Luna. Mi sono aggrappata alla fotografia e tramite essa ho parlato dell’unica cosa che rimane immutabile: l’incessante divenire delle cose.

Ti fa paura la realtà?

Certamente!

In “Eden”, opera vincitrice del New Post Photography 2020, fa irruzione il colore. Mi parli di questo progetto? Hai utilizzato una macchina artigianale, in legno, a foro stenopeico. Come funziona?

Ricordo che Giuliana voleva che scattassimo in bianco e nero. Temeva forse che il colore risultasse maggiormente “descrittivo” e ci spronava affinché approdassimo ad una visione più introspettiva della realtà.

In Eden, desideravo trovare un colore che fosse mio, non stereotipato. Un amico mi mostrò questa macchina artigianale, in legno, a foro stenopeico, e la costruì per me. É un dispositivo affascinante e particolarmente delicato che ha risposto bene alle mie esigenze espressive. I tempi di esposizione sono dilatati e la pellicola Polaroidimpiega qualche secondo per impressionarsi, in base alle condizioni metereologiche. Se le temperature sono particolarmente rigide, la genesi della fotografia è ritardata e tutto si sfuoca al limite del riconoscimento del soggetto. Inoltre, la chiusura del foro d’ingresso della luce crea un effetto mosso che può dirsi, per questa ragione,  connaturato allo strumento. Fotografavo tenendo la macchina appoggiata per terra e questo ha donato alle immagini un senso di tensione verso l’alto, di slancio: i fili d’erba, i funghi, le piante muovono verso il cielo.Per quanto riguarda il titolo, Eden, volevo evocare la bellezza del paradiso terrestre – inteso come luogo di armonia, di felicità e di libertà –  il dolore per la sua perdita e il desiderio di un ritorno impossibile. Quando trascorro del tempo nella natura mi sento profondamente bene e questo progetto parla anche di questa grande gioia che vivo.

Tra i tuoi riferimenti, Sarah Moon e Mario Giacomelli. Cosa ti accomuna a loro?

Con Sarah Moon condivido un’estetica dell’accidentale, una grammatica della sperimentazione e dell’errore fotografico. A Giacomelli, mi legano la dimensione emozionale della fotografia, i bianchi e neri fortemente contrastati e una certa affinità tematica ( la passione per la terra, il timore di una vita che termina in “una vecchiaia infelice”). Vita d’Ospizio, per esempio, è un lavoro realizzato dal fotografo senigalliese nel ’55-’57 in cui aleggia un forte senso d’orrore, stato d’animo che anche io sperimento quando penso a quella condizione che per me rappresenta la morte in vita, la demenza.

Foto di Patrizia Riviera – What Are You Looking For

E voi che cosa cercate?” È “un viaggio simbolico in una montagna simbolica”. Parli di una ricerca d’ascesa tipica della tua generazione, in che senso? E di una “discesa felice” in quanto momento di consapevolezza. Come si raggiunge la consapevolezza?

E voi che cosa cercate è  un lavoro che si inspira a Il Monte Analogo di Daumal, opera rimasta incompiuta per la prematura scomparsa  dello scrittore.

Scrive l’autore: “ Il Monte Analogo è la montagna simbolica che unisce il Cielo alla Terra; via che deve materialmente, umanamente esistere, perché, se no, la nostra condizione sarebbe senza speranza…abbiamo realmente trovato la porta. Solo a partire da questa porta comincia una vita reale”.

Appartengo a una generazione che ancora crede nell’illuminazione e spera nel risveglio e che si chiede ancora se esista un modo per attraversare quella porta. Questa e altre letture, tra cui quelle di Castaneda, Hesse, Jodorowski, Tolkien, Artaud, Poe, Rimbaud, Mann, hanno nutrito i nostri sogni e le nostre speranze, insieme alle droghe e ai viaggi. Ciò che è rimasto è la sensazione di non appartenere a questo mondo, una non-appartenenza che è responsabile d’isolamento, di solitudine e  di depressione. La montagna è per eccellenza luogo simbolico di una ricerca interiore condotta nel silenzio, nella fatica, nella perseveranza: seduta su una roccia, nell’incanto della natura, è facile accogliere quello che sei.

Ancora Daumal “Non si può restare sempre sulle vette, bisogna ridiscendere…A che pro allora? Ecco: l’alto conosce il basso, il basso non conosce l’alto. Salendo devi prendere sempre nota delle difficoltà del tuo cammino, finché sali puoi vederle. Nella discesa, non le vedrai più, ma saprai che ci sono se le avrai osservate bene”. Quando sali, vedi, quando doppi il tuo cammino e ridiscendi, riconosci e acquisti consapevolezza del tuo percorso.

Foto di Patrizia Riviera – What Are You Looking For

In “Close-Ups” parli di una solitudine inestinguibile “la distanza resta incolmabile, e io resto sola, come tutti”; allo stesso tempo la montagna viene scalata avendo in mente “l’altro” che va protetto dalle nostre false piste e che è indispensabile per il raggiungimento della vetta. Non si ascende soli…Come convivono nella tua fotografia questi sentimenti di estraneità e di connessione con “l’altro”?

Il Monte Analogo parla della necessità di creare delle connessioni con gli altri e della responsabilità che abbiamo nei confronti dei nostri simili. Allo stesso tempo, come scrive P.G. Lucchini in Impronte del corpo e della mente, “la persona non consentirà mai a nessuna indagine di esplorarla fino in fondo, così da definirla secondo una trasparenza totale. Cosicché in ciascuno rimarrà sempre un ignoto, una intimità alla quale ci si può avvicinare ma mai possedere”. Non sono possibili rapporti fusionali, né la completa rivelazione dell’altro.

Se è impossibile attribuire un genere a uno scatto, è possibile parlare di uno sguardo femminile?

Penso che per una donna sia più facile fare dei progetti intimi, personali, mettersi in gioco in prima persona. Un uomo, anche quando affronta tematiche personali, tende più a generalizzare, a rendere universali le proprie emozioni. Non c’è una vera differenza di sguardo, solo di attitudine.

Che legame c’è tra la fotografia e la memoria?

La fotografia non è memoria, ma la rappresentazione di quello che vuoi vedere e ricordare, che diventa memoria.

Foto di Patrizia Riviera – Eden

Intervista a cura di Sofia Panseri

Donne fotografe

Patrizia Riviera