di Sofia Panseri
Matilde Castagna è nata a Lecco fra il lago e le montagne, la sua passione per la fotografia cresce nei viaggi con il padre in Africa e a cavallo delle infinite steppe asiatiche. Studia in Italia e negli Stati Uniti, a Milano frequenta l’Istituto Italiano di Fotografia e si laurea in Scienze della Comunicazione con una tesi in semiotica della Fotografia di Reportage. Seguono viaggi solitari che la porteranno ad attraversare prima tutta l’Asia centrale, quindi Cina e Pakistan, via terra da Pechino a Islamabad. Free-lance e caporedattore della rivista Witness Journal.
Come ti sei avvicinata alla fotografia?
Mio padre è un professore di storia e durante le vacanze estive lo seguivo nei suoi lunghi viaggi, prima in Africa e poi verso Oriente; lui scriveva mentre io, con la sua macchina analogica, fotografavo. È così che a dodici anni ho provato a raccontare la Mongolia, un territorio sconfinato, percorso da popolazioni nomadi e animato da antichi e misteriosi riti sciamanici. Raccontare per immagini è sempre stato qualcosa di naturale e intuitivo per me e anche adesso scatto per gioco e meraviglia, mossa da un forte desiderio di conoscere e comprendere tutto ciò che mi circonda. Ci eravamo spinti a cavallo nei territori a nord di Tsaagannuur, il lago bianco, con il supporto della Croce Rossa di Ulan Bator per portare aiuti economici e materiali al popolo nomade degli Tsaatan, gli allevatori di renne. Questa popolazione di etnia tuvana, che scende dai laghi Bianchi russi, conduce un’esistenza a stretto contatto con la natura: una vicinanza che alimenta la loro cultura animista e la loro ritualità.
Un pomeriggio, per iniziarmi al loro sapere tribale, poiché ero la più piccola del gruppo, il capo anziano mi chiamò nella sua tenda e dopo avermi parlato a lungo in una lingua a me sconosciuta, mi regalò un dente di tigre. È una trasmissione simbolica di conoscenze che fluisce dai più vecchi ai più giovani che imparano così il segreto del pascolo e la lettura del bosco. Il mio amore per l’Oriente, sbocciato in Mongolia, è diventato nel tempo sempre più forte: ho viaggiato a lungo in Asia, cercando di avvicinarmi al suo codice visivo, così ermetico, così stratificato. Per certi versi l’Africa, visivamente splendida, direi monumentale, rientra maggiormente nel nostro immaginario ed è più diretta e potente, ma ciò che amo dell’Asia è proprio ciò che non riesco a vedere e che mi costringe a guardare meglio.
In cosa consiste il tuo lavoro di caporedattrice?
Consiste in una prima fase di selezione dei lavori con il photo editor, Giulio di Meo, e nel coordinamento di un gruppo di redattori a cui cerco di assegnare, in base alle diverse competenze e sensibilità, testi da rivedere, da implementare o addirittura da riscrivere. Nella mia visione, il testo completa l’immagine ma non la descrive, fornisce informazioni di approfondimento utili al lettore ma non interferisce nella decodifica della fotografia. Infine, ogni scritto deve essere in armonia con la cornice fotogiornalistica di Wj e con i vincoli che una narrazione di questo tipo comporta. Dimensione pubblica, informativa ed emotiva devono intrecciarsi al meglio per raccontare una buona storia. La fotografia di reportage è lontana dalla natura intimista di alcuni filoni della fotografia artistica, ma anche dal taglio più asciutto e informativo della fotografia di cronaca.
Le categorie, si sa, lasciano il tempo che trovano: quando una fotografia è artistica? Quando non lo è? Se consideri gli scatti di Ansel Adams, un esponente del movimento dell’immagine pura, ti accorgi che possono essere letti in un’ottica giornalistica. E sicuramente vale anche l’inverso. L’estetizzazione dell’immagine è un fenomeno che oggi investe buona parte della fotografia, anche quella di reportage che, tuttavia, non ha come fine primario l’estetica.
Ti sei laureata con una tesi in semiotica della fotografia di reportage. Che cos’è la semiotica?
La semiotica è lo studio dei segni. Nel tempo, la letteratura italiana ha forgiato e collezionato un buon numero di strumenti per analizzare un testo scritto. Non c’è mai stata invece un’attenzione analoga per l’immagine. Nella mia tesi sostenevo che quando la fotografia non è casuale e diventa narrativa può essere letta tramite strumenti semiotici come l’indice, l’icona o anche i quadrati semantici e sintattici. Ripercorrendo l’opera di fotografi noti, mi interrogavo su quanto fosse consapevole la costruzione dell’immagine da parte del suo autore.
Mi parli del lavoro sui quartieri di Milano? Che legame c’è tra fotografia e territorio?
Nel corso degli anni abbiamo realizzato con Wj una serie di appuntamenti fotografici sui quartieri di Milano. L’obiettivo era quello di documentare la rapida trasformazione architettonica e sociale che stava investendo la città. Il mio quartiere, Isola, è passato, ad esempio, dall’essere zona popolare a diventare meta ambita dalle fasce più alte della popolazione, un anti-Naviglio lussuoso all’ombra del Bosco Verticale. La fotografia ci ha consentito di testimoniare questo passaggio e di effettuare così un’operazione di riconnessione storica della città alle sue origini. Negli ultimi due anni invece sto seguendo un progetto in collaborazione con Brig, i comuni briantei e il Consorzio di Villa Greppi che mira alla riscoperta del territorio della Brianza. In questo caso la dimensione documentativa è meno rilevante rispetto a quella di educazione allo sguardo. Il mio compito è quello di accompagnare le persone per borghi e boschi, di allenarle a vedere ciò che le circonda e di aiutarle nell’elaborazione di un proprio linguaggio fotografico. L’approccio è maieutico, non voglio imporre la mia visione del mondo, io stessa voglio arricchirmi di nuovi sguardi e attitudini, e invito gli altri a sorprendermi. La macchina fotografica diventa strumento indispensabile di comprensione e di partecipazione, incentiva i rapporti interpersonali e consolida il legame con il territorio.
In I cavalieri del Song Kul scrivi che appartiene a ognuno di noi l’essere selvaggi, liberi e nomadi ma che ce ne siamo dimenticati. Mi parli di questo progetto?
I cavalieri del Song Kul è un progetto che ho realizzato a cavallo del plateau kirghiso. Ho dovuto attendere parecchi giorni affinché mi venisse rilasciato il tanto agognato visto per muovermi via terra attraverso la valle di Fergana, che segna il confine meridionale fra Uzbekistan e Kirghizistan. Ho così potuto raggiungere Osh e da lì ho cercato di raggiungere uno dei Nadaam, i festival di fine estate durante i quali tutti i popoli centrasiatici smontano le yurte per fare rientro alle città. Non c’è altra modo che spostarsi di villaggio in villaggio e poi di yurta in yurta, sorseggiando tè e chiedendo informazioni sul luogo e il giorno del possibile evento. Poi tutto sembra accadere dal nulla: in un punto remoto del mondo al primo sorgere del sole, con estrema lentezza due donne stendono un filo di bandierine colorate e una pecora viene decapitata. La gente, tanta gente, comincia ad apparire da tutti gli orizzonti possibili in risposta ad un appuntamento tacito e ancestrale. I suonatori assistono e i giochi hanno inizio.
La concezione spazio-temporale di queste popolazioni è totalmente diversa dalla nostra, così come lo è il legame con la natura, grazie al quale accedono ancora alla dimensione mitologica del mondo. Bambini piccolissimi cavalcano a pelo animali slanciati e imponenti, eredi dei cosiddetti “cavalli del cielo”. Quest’ultimi, tra le merci più pregiate scambiate sulla via della seta, provenivano dalle cosiddette “montagne del cielo” (la catena del Tian Shan) o forse, come alcuni credevano, direttamente dal Paradiso. Invincibili in battaglia, più veloci del vento, per conquistarli l’imperatore cinese Wu Di sacrificò in combattimento migliaia di vite per arrivare ad assediare Ferghana inseguendo il sogno dell’immortalità. È stato un viaggio fisico e mentale che mi ha rivelato una dimensione altra del corpo, dei suoi ritmi e delle sue connessioni più libere e profonde.
In Sulla Fotografia Susan Sontag riporta due tipi di fotografi, quello alla Dziga Vertov in L’uomo con la macchina da presa, sempre in movimento, e quello alla Hitchcock in La Finestra sul cortile, che fotografa proprio perché immobilizzato. “Chi interviene non può registrare, chi registra non può intervenire.” scrive l’autrice. Come risolve questa impasse la fotografia di reportage?
Il fotoreporter si definisce in relazione alla realtà che rappresenta. Ad esempio il reportage usa spesso un’ottica fissa e questo espediente consente a chi scatta di prendere consapevolezza del proprio punto di vista. La fotografia è una rappresentazione della realtà ma non è la realtà, e il movimento oscillatorio di avvicinamento e allontanamento al soggetto da immortalare consente di sondare questo divario. Per questo motivo puoi scegliere di attendere l’attimo, alla Bresson, aspettando che la realtà si componga di fronte a te o puoi correrle incontro, affinché un fenomeno non ti sfugga. Come diceva Uliano Lucas la fotografia è una presa di posizione a cui gli altri sono chiamati a rispondere, se vogliono. Il fotografo definisce cosa sta dentro e cosa sta fuori dall’inquadratura, attuando innumerevoli scelte che delineano sempre un’autorialità. Gli approcci alla Vertov e alla Hitchcock coesistono e sono funzionali alla costruzione del punto di vista narrativo.
In Tarda primavera, una Noriko di porcellana sfreccia in bicicletta davanti ad un’insegna della Coca-cola. É la spia di un Giappone postbellico che sta cambiando e che sta assorbendo simboli e stili di vita occidentali. Com’è il tuo Oriente? Cosa ti ha dato come occidentale?
Non sono mai stata in Giappone, mentre nutro un grande amore per la Cina e per il suo popolo mascherato e impenetrabile. È un paese in ampia trasformazione costellato di simboli occidentali che sono stati assimilati e riletti alla “maniera cinese”. We do it the Chinese way, dicono loro per sottolineare la loro peculiare visione del mondo, non riconducibile entro canoni occidentali. In Cina, è facile sentirsi accolti: nei miei viaggi, nonostante non parlassi la lingua locale, sono sempre riuscita a farmi comprendere e a comprendere. Buona parte della popolazione non parla il mandarino ma riesce a comunicare tramite il disegno, l’ideogramma. Cogli la Cina per sottrazione, collezionando ciò che è diverso dall’Occidente. Per fare un esempio, i cinesi non amano la violenza e le sue manifestazioni: non riescono a concepire la nostra quotidianità gridata. Ciò che amo di più dell’Oriente è la sua radice pacifica.
Tra i tuoi riferimenti Gianni Giansanti e Diane Arbus. Il primo come fotografo e fotogiornalista, la seconda soprattutto come donna. Me ne parli?
Ho avuto la fortuna di lavorare a stretto contatto con Gianni Giansanti durante la stesura della tesi, quando ero a Roma. Lo considero un grande fotografo e un maestro. Gianni visse gli anni d’oro del fotogiornalismo, anni in cui il racconto veniva condensato in un singolo scatto. Era una modalità narrativa molto distante dalla nostra che si serve di una serie di fotografie per costruire la storia e che, probabilmente, obbligava il fotografo ad una maggiore riflessione sul linguaggio. Tra le fotografie che lo resero famoso quella scattata dall’alto di Aldo Moro, esanime nella sua Renaut, e le immagini del Papa. Fuori dall’orbita italiana, Giansanti realizzò servizi fotografici in Africa in cui faceva uno splendido utilizzo del colore e che erano rivoluzionari per l’epoca. Se invece mi chiedi di una donna fotografa, mi viene alla mente Diane Arbus, ed è in effetti interessante accostarla a Giansanti; entrambi erano in un certo senso coinvolti dalla restituzione fotografica delle persone. Vedo Diane Arbus come una specie di Frida Kahlo della fotografia: nata in una famiglia ebrea molto ricca, americana di origini russe, si ribellò ben presto al suo ambiente e alla fotografia patinata dell’epoca per inseguire i freaks newyorkesi. Era una donna talentuosa, esile, attraversata da una serie di insicurezze che riversava sulla macchina fotografica. Come dicono i cinesi, la realtà è per lo più noiosa ma, ogni tanto, si manifestano attimi di meraviglia. Diane Arbus era maestra nel cogliere la meraviglia.
Se è impossibile attribuire un genere ad uno scatto, è possibile parlare di uno sguardo femminile?
Non credo che esista uno sguardo femminile, né soggetti che segnalino il genere dei loro autori. Le fotografie di Hine, di denuncia al lavoro minorile, che mettono al centro il bambino, potrebbero essere tranquillamente attribuite ad una donna.
Intervista a cura di Sofia Panseri