Protagoniste | Isabella Balena
di Sofia Panseri
Isabella Balena è nata a Rimini nel 1965, vive a Milano. Attenta e interessata ai problemi sociali ha scelto il fotogiornalismo come sua espressione di vita. Fotografa professionista freelance dal 1991, ha lavorato in molte aree di conflitto tra cui Iraq, Somalia, Kenya, ex Jugoslavia, Albania, Messico e sud America, India, l’area medio orientale. Dal 1996 al 1998 è stata fotografa del settimanale D-La Repubblica delle donne; ha realizzato molti progetti tra i quali Questa guerra non è mia, Ci resta il nome – I luoghi della memoria della Seconda Guerra Mondiale in Italia, Memoria dei campi, A seno nudo. Ha lavorato per Regione Sardegna e per Regione Lombardia. È stata membro dell’Agenzia Grazia Neri; attualmente lavora in maniera indipendente.
Isabella, ti senti legata al tuo territorio d’origine?
In verità non particolarmente. Mi sembra di appartenere a molti luoghi e a nessuno allo stesso tempo. Milano è dove ho imparato a fotografare, dove risiedo, dove son nati i figli, dove ho intessuto molte amicizie e relazioni lavorative, ma non ho mai sentito questa città come parte di me. Rimini, mia città natale, è legata agli affetti profondi e suscita in me grande tenerezza. Sinceramente però non so più quale sia “il mio posto” e se sia così necessario averne uno. Sto bene in movimento.
Come lavori? Come adegui la pratica fotografica a ciò che devi fotografare? Diverse tecniche fotografiche determinano diverse modalità con cui relazionarsi al soggetto?
Per chi lo ha vissuto, il passaggio dall’analogico al digitale ha cambiato profondamente il modo di organizzare il lavoro. In origine, si era obbligati dai limiti tecnici del mezzo a predisporre la propria attrezzatura, diversificando fotocamere e pellicole per essere in grado di far fronte alle imprevedibili condizioni che si presentavano sul “campo”.
Per il ritratto, era molto bello utilizzare il formato quadrato – a cui, per esempio, ricorreva anche la statunitense Mary Ellen Mark nel suo lavoro -, che conferisce a questo genere una felice armonia formale.
Per le fotografie di architettura, una scelta intelligente era servirsi del banco ottico che riesce a preservare le linee verticali degli edifici dalle distorsioni prospettiche. In generale, le modalità di interazione con il fotografato sono sfumate e molteplici e implicano sempre una scelta autoriale. Finché ho usato la pellicola mi sembrava impensabile rimaneggiare la fotografia, tagliandola o re-inquadrarla. Conservavo sempre il filetto nero del negativo a testimonianza che ciò che inquadravo combaciava esattamente con lo scatto finale. L’avvento del digitale ha dato vita a file sorgenti molto duttili che vengono elaborati in un secondo momento, in post-produzione. Non è una pratica con cui mi trovo pienamente a mio agio essendomi formata “analogicamente”, ma indubbiamente facilita le cose. Oggi uso una 35 mm mirrorless.
Ci sono dei temi e delle soluzioni formali che ricorrono nella tua fotografia?
Soluzioni formali, no, non molto. Tendo a modificare il meno possibile quello che scatto. Considero il reportage una fotografia d’informazione, per questo vincolata alla verità del fatto. Per quanto riguarda i contenuti, mi appassiona l’indagine di fenomeni contemporanei di carattere storico-sociale. Nel tempo, accanto al commissionato, ho potuto condurre progetti vicini alla mia sensibilità personale, che gravitano attorno ad aree tematiche di mio interesse: i migranti, la tossicodipendenza a Milano, i conflitti in Medio Oriente, Bosnia e Palestina.
In un reportage, è importante creare gruppi omogenei per temi o per soggetti o per emozioni (le prostitute, i folli)? Cosa ne pensi? Se sì, come si evita la reificazione dello stereotipo o del pregiudizio?
L’omogeneità dell’argomento aiuta la comprensione del racconto. Un tema può essere declinato in molti modi e la rosa delle soluzioni formali è veramente ampia. Supponiamo di lavorare attorno al tema delle carceri: che tipo di istituto andrò a considerare? Chi scelgo come protagonisti della mia narrazione? I detenuti, i parenti, le guardie penitenziarie? Che taglio darò alle mie fotografie? Saranno in bianco e nero, a colori?
Credo, come sempre, nell’importanza di un equilibrio tra forma e contenuto per pervenire a una rappresentazione aderente ma non scontata. Per la natura della mia fotografia non riesco ad avere una maniera cosiddetta “artistica”.
Il 21 agosto 1968 Joseph Koudelka si precipita in strada: “sono arrivati i russi!”. La Primavera di Praga sta giungendo al suo epilogo. Che legame intrattiene la (tua) fotografia con la testimonianza e con la memoria? Quando la fotografia falsifica?
È mia opinione personale che la fotografia di reportage e, nello specifico, il fotogiornalismo, siano l’anima della testimonianza e parte integrante del racconto della Storia generale. A oggi è difficile prescindere dalle immagini per rappresentare i fatti. Ne è esempio attualissimo la narrazione della guerra in Ucraina dove l’elemento visivo è centrale. Si deve considerare che la mediazione del fotografo e la cornice di presentazione di uno scatto impediscono sempre la “trascrizione oggettiva” di un avvenimento.
Decontestualizzata, l’immagine di un bambino che piange può essere interpretata in modi differenti, (piange perché si è fatto male, perché ha perso la mamma, strilla per fame, per capriccio, etc.). Innegabile però è che un fotografo era presente, in quel momento, a riprendere quella scena. Nonostante la richiesta pressante di immagini perfette, ritengo che, in post produzione, si debba intervenire sulla fotografia documentaria in modo moderato e circoscritto per evitare stravolgimenti di senso e artificiosi effetti cinematografici. La falsificazione della realtà c’è sempre stata a vari livelli; certamente oggi è un fenomeno molto più comune e che determina un grande spaesamento visivo. Credo pertanto nella necessità di una cultura dell’immagine.
Mi parli di “Ci resta il nome”?
Ci resta il Nome è un progetto a cui ho lavorato dal 2000 al 2004. In tre anni di viaggi per l’Italia ho documentato i luoghi della memoria della seconda guerra mondiale, un conflitto che riaffiora nelle divergenze politiche attuali e nei ricordi dolorosi di chi l’ha vissuto direttamente o indirettamente. Ho iniziato senza sapere cosa avrei trovato e dove questo lavoro mi avrebbe condotto. Mi sono chiesta come sia possibile restituire qualcosa che non esiste più, che cosa siano la memoria e la dimenticanza di un fatto storico, come raccontare quello che è stato tramite quello che resta.
Un giorno, mentre raggiungevo Sant’Anna di Stazzema, teatro di un eccidio nazifascista, un signore mi precedeva con in mano una candela. Ho deciso di condensare questo momento in una fotografia volutamente mossa che testimonia l’intreccio di tre cammini, il mio, quello di quest’uomo e quello simbolico della memoria.
Mi parli del lavoro che stai facendo con i migranti?
Da un po’ di mesi a questa parte mi muovo lungo i confini europei per documentare le difficoltà di tanti migranti che abbandonano il proprio paese alla ricerca di condizioni di vita migliori. Derubate dai passeurs, stremate da viaggi estenuanti, queste persone arrivano alle porte di un’Europa blindata che le condanna alla clandestinità e che le lascia facili prede di organizzazioni malavitose. Ritengo che a ogni essere umano dovrebbe essere garantito il diritto essenziale di spostarsi liberamente e di realizzarsi in qualunque parte del pianeta.
Le politiche che vengono attuate contro i migranti sono assolutamente indegne e buona parte della rappresentazione mediatica mistificatrice. Discriminazioni e disparità sono rese ancora più evidenti dall’attuale conflitto in Ucraina che mostra come sia possibile attuare un’accoglienza ragionata e dignitosa. Le regolamentazioni che disciplinano i flussi in ingresso dovrebbero essere ripensate e dovrebbero prescindere dalla nazionalità del migrante. Come tanti colleghi e videomaker stanno facendo molto meglio di me, credo sia importante documentare.
Mi è piaciuto molto il lavoro Please do not try to close curtains. Me ne parli? (Alcuni scatti mi ricordano Friedlander).
In verità quella sequenza non era un vero e proprio progetto ma una raccolta di scatti selezionati dall’archivio. Spesso si tende a ritornare su uno stesso argomento senza averne coscienza. Poi a un certo punto emerge un fil rouge che lega, su un piano simbolico, immagini nate in contesti e per esigenze differenti.
Non so se ricordano Friedlander…ogni fotografo ha in sé visioni interiorizzate del passato.
Tra i fotografi che ti hanno influenzato ci sono Letizia Battaglia e Don McCullin. Mi sembra che abbiano un atteggiamento opposto nei confronti della violenza. Di fronte agli omicidi di mafia, da un certo momento in avanti, la prima smette di fotografare, il secondo “ruba il dolore degli altri”. Hai avuto modo di fotografare episodi violenti? Il tuo obiettivo si arresta di fronte alla violenza o avverti la responsabilità di fotografare?
In molti paesi la violenza è quotidiana, i soprusi all’ordine del giorno. La fotocamera, agendo da filtro tra quello che vedi e quello che sei, in parte protegge. Ma non si è mai spettatori neutri o insensibili. Ciò che vedi diventa parte integrante del tuo vissuto, lo interroga, lo modifica. Credo che la scelta tra fotografare e non farlo sia in larga misura influenzata dal contesto. Alcune volte, di fronte a episodi luttuosi o violenti le persone vogliono che quanto accade sia documentato, altre ti chiedono di non farlo.
Letizia Battaglia mi interessava nel suo complesso, come donna e come fotografa. Penso sia riuscita a emanciparsi da molta retorica, anche scomoda. Nonostante in alcuni casi abbia deciso di non fotografare, la sua documentazione della guerra di mafia, così come della guerra alla mafia, è di importanza storica.
Se McCullin sceglie di fotografare sempre…penso sia giusto. Il nostro ruolo è quello di documentare. Ma non basta scattare una foto: la tieni nel cassetto o la pubblichi? È nell’uso che se ne fa la grande differenza. E questo è un altro argomento gigantesco.
La fotografia è di genere? Ti interessano le donne come soggetto?
Probabilmente alcune tematiche – come l’esplorazione dell’intimità – ricorrono maggiormente e sono sentite con più urgenza dalle donne.
Sul fronte del reportage, della fotografia di paesaggio o di architettura non penso si possano dividere le immagini per genere. Nel ritratto forse si registrano sensibilità diverse. Personalmente non sento di avere una visione femminile o femminista, le donne sono soggetti interessanti perché molteplici. Soprattutto nelle zone di conflitto, in cui i problemi del quotidiano diventano più complessi e onerosi, si percepisce distintamente la pluralità di compiti che una donna è chiamata ad affrontare, lavorativi e familiari.
Nel 2018 ho avuto modo di lavorare con WeWorld – organizzazione no profit italiana indipendente attiva in 25 Paesi con progetti di cooperazione allo sviluppo e aiuto umanitario che lavora per garantire i diritti delle comunità più vulnerabili a partire da donne, bambine e bambini – alla realizzazione di ritratti di donne che hanno sperimentato una qualche forma di violenza, diretta o indiretta, di tipo sociale, psicologico o fisico e che sono riuscite a reagire. Tra queste Ilaria Cucchi, Lucia Annibali, Valentina Bellisi e tante altre.
Da qualche anno faccio parte dell’associazione Donne Fotografe, nata da un’idea di Patrizia Pulga, che si propone di affrontare tematiche di genere e che oggi raduna una quarantina di professioniste diversissime per sensibilità e interessi.
La Battaglia decide di dedicare un lavoro ai suoi “Invincibili”, Pina Bausch, Freud etc… Chi sono i tuoi?
Gli invincibili? Sono tutti quelli che cercano di sopravvivere, coloro che hanno un briciolo di umanità e, soprattutto, coloro che agiscono per il bene comune.
Intervista a cura di Sofia Panseri