Protagoniste | Francesca Belgioioso

Protagoniste una rubrica di Witness Journal, curata da Sofia Panseri, dedicata alle donne fotografe. Uno spazio per conoscere storie, progetti sul mondo della fotografia e sul mondo del reportage.

Francesca Belgioioso è una psicologa e psicoterapeuta junghiana AISPT. Dopo la laurea si è interessata alle tematiche adolescenziali, sia come psicologa sia come insegnante. Questo interesse, approfondito e maturato nel corso del tirocinio post-lauream, l’ha avvicinato anche alla psicologia giuridica. La sua passione più grande è stata, da sempre, la fotografia, che ha cercato di unire alla sua professione, trovando nel medium fotografico un ulteriore modo per approfondire la conoscenza di sé. Questo connubio l’ha portata ad organizzare dei laboratori in psicologia e fotografia e ad utilizzare la fotografia con i suoi pazienti e in progetti scolastici soprattutto con gli adolescenti.

Di Sofia Panseri

Come ti sei avvicinata alla fotografia?

Ho iniziato ad occuparmi di  fotografia sin da giovanissima. Seguivo corsi dedicati  – uno dei primi era tenuto dal comune di Milano – e amavo prendere parte a tutte quelle occasioni culturali (il festival di Arles, il Paris Photo, il Mia ) che celebravano quest’arte. Fiere e festival ampliavano i miei orizzonti offrendomi un panorama completo della fotografia contemporanea e passata. Ero solita annotare in un quadernetto i nomi dei fotografi che non conoscevo: la scoperta di ogni nuovo autore mi elettrizzava.

Finito il liceo, mi riproposi di diventare fotografa ritrattista, ma l’offerta formativa di allora non mi soddisfaceva pienamente: le poche scuole di fotografia esistenti avevano un’anima prevalentemente tecnica. Lo studio della psicologia, vissuto all’inizio come completamento teorico di questa mia passione, mi rapì. Posso quindi dire di essere partita dalla fotografia e di essermi “avvicinata” alla psicologia.

Che differenza c’è tra psicologo e psicoterapeuta? Mi parli del tuo percorso professionale e della tua vicinanza al lavoro di Judy Weiser?

Lo psicologo ha completato i cinque anni di studi universitari e superato l’esame di stato. Ha una preparazione scientifica, può fare formazione e lavorare in contesti aziendali -come psicologo del lavoro ad esempio- ma non può fare terapia. Se interessato all’ambito clinico e alla relazione di cura deve proseguire la sua formazione con una scuola di specializzazione della durata di quattro anni. Io sono psicologa e psicoterapeuta. Mi sono laureata con una tesi in psicologia dell’arte, sul tema dell’autoritratto in fotografia, che mi ha dato modo di scoprire innumerevoli connessioni tra psicologia e fotografia. All’epoca mi incuriosì in particolar modo il lavoro di Judy Weiser,  psicologa e arteterapeuta canadese che, già allora, aveva inventato e strutturato delle tecniche che si servivano della fotografia come strumento all’interno della terapia. La scoperta di questa autrice mi fece sentire autorizzata a portare avanti il mio percorso  continuando a coltivare entrambi gli ambiti di mio interesse. In quel periodo lavoravo a New York presso lo studio di David Harvey, fotografo della Magnum, e mi spostai a Toronto per partecipare, come studentessa, al mio primo workshop con Judy Weiser. Divenni in seguito sua assistente, appresi le sue tecniche ed ebbi l’autorizzazione a trasmetterle a mia volta…le insegno da dodici anni!

Le tecniche sono cinque e strutturano diversi modi di utilizzare la fotografia in terapia. La prima, la fotografia proiettiva, consiste nel mostrare un set di fotografie al paziente e nel chiedergli di sceglierne una o più in base al lavoro che si sta facendo insieme. Possono essere date varie consegne, alcune molto semplici come “scegli una foto che ti piace”  o “scegli una foto che ti rappresenta”.

La seconda richiede al paziente di portare in terapia fotografie che egli stesso ha  realizzato.

La terza prevede la condivisione di immagini che familiari o amici hanno fatto al paziente.

La quarta lavora sull’autoritratto e la quinta sull’album di famiglia.

Foto di Francesca Belgioioso

Perchè privilegiare, in terapia, l’aspetto visivo sulle altre dimensioni sensoriali?

La fotografia si è rivelata una delle forme più contemporanee e potenti di comunicazione. Negli anni ’70, Judy Weiser, che lavorava con l’analogico, doveva spiegare la fotografia al paziente; oggi, tutti abbiamo  album cartacei o digitali in cui far confluire frangenti della nostra esistenza. In terapia si parte dall’immagine e si arriva a parlare del mondo interiore del paziente: cosa sente? come vede la realtà che lo circonda?  Questo oggetto, la fotografia, e le metafore visive che evoca  lo accolgono in una dimensione sicura in cui poter parlare di sé senza sentirsi eccessivamente esposto. Ovviamente la fotografia è solo uno degli strumenti in grado di mediare la comunicazione. Si potrebbero usare anche una melodia o un disegno come altri ambiti terapeutici fanno.

Che differenza c’è tra fotografia terapeutica e fototerapia?

Per fototerapia si intende quanto discusso finora, ovvero l’uso della fotografia come strumento all’interno di un percorso terapeutico. Si parla di fotografia terapeutica quando il soggetto ricorre alla fotografia in modo spontaneo utilizzandola come strumento per lavorare su di sé e per affrontare temi personali senza l’aiuto di un professionista. Nel 2015 abbiamo pubblicato Oltre l’immagine: inconscio e fotografia, libro in cui, affiancandoci a fotografi professionisti, tra cui nomi molto noti come Antoine D’Agata e Guido Guidi, abbiamo indagato la natura della fotografia terapeutica e i nodi psicologici sottesi al lavoro artistico.

Nella fotografia proiettiva, in base a che criteri scegli le fotografie da sottoporre al paziente?

Ho una collezione di immagini molto varie che include anche cartoline e ritagli di riviste. Quando lavoro con il singolo paziente tendo a presentare una sessantina di immagini, un numero abbastanza ampio ma non eccessivo da generare difficoltà di scelta. Il presupposto è che ognuno possa vedere qualunque cosa in qualunque immagine: se il paziente vuol parlare di uno stato d’animo attraverso la fotografia di un vulcano è libero di farlo. Il mazzo che utilizzo è eterogeneo e non strutturato. Eterogeneo per affrontare la molteplicità di argomenti che emergono durante il colloquio. Non strutturato perché non c’è una ricerca scientifica che ne predetermini la composizione. Il lavoro non funziona come un test proiettivo standard. Per fare un esempio classico, il test di Rorschach, elaborato negli anni 20′, sottopone al paziente una serie di tavole, di macchie di inchiostro nella fattispecie, che, statisticamente e scientificamente, si è visto essere collegate a determinate tematiche (l’ identità, il rapporto con la madre, con il padre etc). Nel caso della fototerapia le immagini sono stimoli proiettivi capaci di smuovere il mondo interiore del paziente e di alimentare lo scambio con il terapeuta.

Come è strutturata la psiche e a che livello parlano le immagini?

Ogni orientamento teorico elabora una specifica visione della psiche. Sono psicoterapeuta psicoanalitica  dell’adolescente e del giovane adulto, di derivazione psicodinamica. Con amor di semplificazione, la corrente di pensiero a cui appartengo ritiene la “consapevolezza” divisa in conscio, preconscio e inconscio. Il conscio è ciò di cui siamo consapevoli, – noi, qui, ora che parliamo- il preconscio, immediatamente dietro l’angolo del conscio, è ciò che può essere  portato alla coscienza abbastanza facilmente,  l’inconscio è invece il “rimosso” e tutto ciò che difficilmente affiora a livello cosciente. La fotografia raggiunge facilmente il preconscio bypassando le barriere razionali e intellettuali del paziente. Per lavorare sull’inconscio è necessario che l’uso delle immagini sia incluso in una terapia, che prevede tempi più lunghi, un setting scientifico e una alleanza terapeutica.

Le fotografie abbassano le difese razionali e intellettuali del paziente. Lo psicoterapeuta è immune da questo potere che hanno le immagini ?

Non siamo immuni a niente! Ed è proprio perché non lo siamo che siamo i primi ad andare  in terapia per lavorare su noi stessi. Provare su di sé le stesse tecniche che si sottopongono al paziente consente di aver una maggiore conoscenza delle dinamiche che vengono poste in essere durante l’attività clinica.

Foto di Francesca Belgioioso – Variations in the moonlight bubbles

Perché fai stampare le fotografie al paziente?

L’esistenza materiale delle immagini conferisce loro maggiore importanza. Stampate, possono essere fruite in  maniera più completa: possono essere manipolate e disposte nello spazio. Al termine di ogni incontro, il terapeuta fotografa la composizione che assume l’insieme delle immagini usate durante la seduta; il paziente stesso può portare a casa alcune fotografie che lo aiutino a creare una mappa personale di quanto detto insieme. Gli adolescenti sono più reticenti a stampare, spesso vivono questo compito come una seccatura ma, una volta superato questo scoglio, possono rendersi conto di quanto siano importanti i loro scatti.

Cosa succede se è un fotografo a fare fototerapia?

Niente di grave! Molto spesso è il professionista stesso a scegliere questo tipo di terapia,  proprio in virtù della lunga familiarità con il mezzo. Per un fotografo è più difficile astrarre dalla valenza estetica di uno scatto o dall’autore della fotografia se questa è nota, tuttavia, una volta compresa la cornice terapeutica di lettura delle immagini, si lavora insieme in modo spedito e stimolante.

Per sei anni hai lavorato con le immagini anche come artista, realizzando opere che hai esposto in Italia e all’estero. Come sono nati i tuoi lavori e perché il collage?

Come ti dicevo,  all’inizio del mio percorso volevo essere una fotografa. Sentivo un forte impulso creativo che volevo esplicitare nel  territorio del visivo. Ho sempre portato avanti questa mia necessità espressiva pur sentendomi a volte insoddisfatta dei miei scatti: con l’analogico, per lacune tecniche,  non avevo il completo controllo dell’immagine, con il digitale mi trovavo a lavorare con strumenti poco adeguati. Ad un certo punto, mi accorsi di essere ferma dal punto di vista creativo. Il collage mi consentì di ripartire: mi dava modo di riprendere quelle fotografie che non mi convincevano del tutto e di ricollocarle in un contesto compositivo in cui funzionavano molto bene. Spesso per spiegare il collage si ricorre alla metafora del sogno: ci si appropria di pezzi di realtà estrapolandoli dal loro contesto originario e li si integra  creando nuovi nessi tra loro e il surreale. Infine, la dimensione manuale del lavoro e il suo incedere meditativo consentono di liberarsi dal pensiero lucido, razionale, per fare emergere quella componente  “regressiva” del fare associata al mondo dell’infanzia. Mi appassionai a questa pratica, i collage erano belli e col tempo ebbi l’occasione  di esporli  in Italia e all’estero.

C’è qualche autore a cui ti senti particolarmente legata?

Amo molto i grandi classici, Diane Arbus, Francesca Woodman…

Tra i contemporanei ho apprezzato moltissimo il lavoro di Elina Brotherus, dai suoi primi autoritratti immersa nel paesaggio finlandese allo splendido lavoro sul tema dell’infertilità,  Five years diary, in cui l’artista parla di una ricerca di maternità inesaudita. É una fotografa che ha la capacità incredibile di lavorare sulle proprie fragilità e paure e  di trasformarle nel motore creativo dei propri progetti. Sicuramente in questo caso la fotografia è così potente da rivelarsi terapeutica sia per l’ autore che per il fruitore.

Foto di Francesca Belgioioso – A Japanese Landscape

Intervista a cura di Sofia Panseri

Francesca Belgiojoso, psicologia e fotografia 

Francesca Belgiojoso IG