Out of Tibet

A pochi giorni dall'uscita del libro Out of Tibet abbiamo intervistato l'autrice, Albertina d'Urso, per conoscere meglio un progetto cominciato quasi dieci anni fa

WJ78 | Out of Tibet di Albertina d'Urso
WJ78 | Out of Tibet di Albertina d'Urso

di Giulio Di Meo

Out of Tibet è un progetto che sta per diventare un libro. Puoi spiegarci come è nato e perché?
E’ nato ancora prima che diventassi una fotografa professionista. Nel 2000, dopo avere letto alcuni libri su questo straordinario paese, ho intrapreso un viaggio in Tibet, ma una volta arrivata non ho potuto fare a meno di notare che per quanto la natura rimanesse spettacolare, la cultura era repressa dal governo cinese e messa in serio pericolo. Qualche anno dopo, ho conoscito in India una famiglia di rifugiati Tibetani che mi ha raccontato gli sforzi che la loro comunità stava facendo per preservare la propria cultura e li ho seguiti fino a Bylacuppe, nello stato del Karanataka. Lì è iniziato questo progetto.

In qualche modo il tuo, oltre che il racconto delle vicende delle singole persone che hai incontrato, diviene il simbolo della diaspora di un popolo. Era questo uno dei tuoi obiettivi?
Il mio obiettivo era quello di riunire questo “stato di fatto”, i cui cittadini sono però dispersi in tutti gli angoli del mondo. E’ come se questo libro rappresentasse simbolicamente la terra che loro non hanno. I tibetani si sono ritrovati molto in questo progetto ed hanno collaborato attivamente alla sua realizzazione. La loro partecipazione alla campagna kickstarter, i loro commenti, però mi hanno commosso. Ed hanno fatto anche di più. Nei campi profughi del Sud dell’India, dove non possedendo carte di credito non potevano partecipare, hanno fatto una colletta in rupie ed hanno racimolato il necessario per comprarsi un centinaio di libri.

 

WJ78 | Out of Tibet di Albertina d'Urso
WJ78 | Out of Tibet di Albertina d’Urso

Che opinione ti sei fatta di quello che è accaduto in Tibet e, soprattutto, pensi che si potrà trovare una soluzione capace, se non di ripristinare un’autonomia politica che ormai appare perduta, almeno di permettere a tutti gli esuli di poter rientrare prima o poi nella propria terra?
I Tibetani ci sperano ancora, lo scopo finale di ognuno di loro è tornare nella prorpia terra e viverci liberamente. Al momento a me sembra che sia ancora piuttosto difficile ma non si sa mai. La storia ci ha insegnato che tutto può succedere. Basta pensare a cos’era l’Unione Sovietica non così tanti anni fa e cosa sono stati paesi come Estonia, Lettonia e Lituania.

Se non abbiamo capito male il libro sarà accompagnato da una esposizione itinerante. Sai già dirci dove potremo vedere la mostra di Out of Tibet?
La prima mostra sarà sicuramente a Milano, la mia città, in primavera. Seguiranno sicuramente una mostra a Londra, una a New York ed una a Mumbai. Più budget ed occasioni avremo, più mostre faremo. Lo scopo principale di questo progetto è proprio quello di far conoscere la situazione dei Tibetani e la loro cultura quindi cercherò di far girare la mostra il più possibile. L’idea è di lasciare poi un’esposizione permanente a Dharamsala, la capitale del “Tibet in esilio”.

Quanto tempo ha impiegato la tua ricerca e come sei riuscita a finanziare un progetto di lungo periodo come questo?
Questo progetto è durato più di dieci anni. E’ stato molto diluito nel tempo e questo mi ha permesso di studiare meglio la storia che stavo creando e di far coincidere le mie ricerche sulle comunità Tibetane nei veri paesi documentati (India, Nepal, Taiwan, Canada, Stati Uniti, Francia, Inghilterra, Svizzera, Olanda, Belgio e Italia) con altri viaggi e lavori.

 

WJ78 | Out of Tibet di Albertina d'Urso
WJ78 | Out of Tibet di Albertina d’Urso

Lavorare a un progetto fotogiornalistico per un periodo così lungo di solito significa sposare una causa. E’ quello che è successo anche a te con il Tibet?
Certo. Non sarai andata avanti così a lungo se non mi fossi appassionata alla causa di questo popolo. Ho sentito che dovevo fare qualcosa per sensibilizzare e per far conoscere questa magnifica cultura.

Credi che il fotogiornalismo possa in qualche modo aiutare ancora a “cambiare le cose” rendendo le persone più consapevoli o scuotendo opinione pubblica e governi come a volte è successo in passato o credi che nell’era della globalizzazione e dell’informazione totale sia divenuto impossibile?
Quando, poco più che ventenne, mi sono buttata in questa professione avevo la speranza di cambiare il mondo. Adesso sono più lucida, so che questo non succederà ma so anche che il mio lavoro pur non potendo scuotere un governo, può cambiare alcune persone, renderle più consapevoli e spingerle a fare qualcosa che può rivelarsi importante.

Hai qualche aneddoto o ricordo speciale che ti porti nel cuore legato a questo lavoro?
Questo lavoro è stato sicuramente una delle esperienze più importanti della mia vita. Soprattutto per quel che riguarda i lunghi periodi passati in India. Quando sono stata la prima volta a Bylacuppe, per esempio, non esistevano ancora guest huose e quindi sono rimasta un mese intero in un monastero dove nessuno parlava in Inglese. Quando invece ho scattato in Ladack, per poter incontrare e fotografare i nomadi, ho dormito ad altiduni tra i 4000 e i 5000 metri in tenda per giorni. Porto nel cuore un po’ tutti i Tibetani ma soprattutto la prima famiglia che ho conosciuto, di cui ho adottato a distanza, tramite l’associazione Vimala, la figlia quando ancora era in pancia. Quasi ogni anno li andavo trovare. Ormai questa famiglia se la sta cavando bene e quindi la mia sponsorizzazione è stata trasferita ad altri però non mi dimenticherò mai di loro, anche perché mi hanno regalato un cane che ho portato in Italia e vive con me da sette anni. Poi non mi dimenticherò mai di Namgyal, una ragazza malata di tubercolosi, con cui sono rimasta in contatto dal giorno della mia fotografia a quello della sua morte, una storia che mi ha molto coinvolta e toccata.

Cosa ti senti di dire ai fotografi e reporter più giovani che si affacciano oggi a questa professione in un momento di mercato che definire difficile è un eufemismo?
Io consiglio sempre di dedicarsi a progetti di cui si è appassionati. Non ha senso per i freelance rincorrere le news o produrre una storia dopo l’altra in modo superficiale. Se invece ci si dedica nel profondo ad una questione per la quale si nutre interesse il tempo non è mai perso.

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