Di Valerio Di Martino / Foto di Christian Tasso
Il 28 maggio chiude la mostra di Christian Tasso alla Fabbrica del Vapore di Milano. Per l’occasione Valerio Di Martino ha intervistato l’autore approfondendo alcuni aspetti che hanno caratterizzato il suo lavoro e, in generale, la sua professione
Partiamo dalla presentazione e da come e quando è nata la passione per la fotografia.
Sono fotografo da dieci anni. La passione per la fotografia mi è arrivata quando ero molto giovane: avevo quattordici anni quando mi sono avvicinato allo strumento fotografico ed ho sentito una connessione, un interesse nei confronti di quello strumento. Non è stato immediato il nesso tra fotografia e professione, ma più andavo avanti nel tempo e più è diventato un qualcosa da portare avanti, da seguire. A diciott’anni avevo già deciso che quella sarebbe stata la mia strada.
Come hai passato gli anni che separano la scelta del diventare fotografo e l’origine del progetto “Nessuno Escluso”?
Mi sono semplicemente buttato a capofitto su questo percorso. Ho iniziato da progetti molto piccoli nell’area in cui vivevo, perché erano le uniche cose che potevo permettermi. In seguito, ho fatto un primo grande progetto, quello sul popolo Saharawi: il primo progetto realizzato su una tematica sociale e con dei risvolti storici importanti. Ci ho lavorato per due anni. Quel progetto è stato l’apertura della mia carriera, perché mi ha fatto entrare in contatto con i giornalisti, con i concorsi internazionali e con l’idea di una fotografia su scala internazionale. E quindi, ho iniziato a lavorare su progetti che affrontavano temi che mi interessavano. Per me, la fotografia è uno strumento per avvicinarmi a ciò che mi interessa: per scoprirlo e andare a fondo. In seguito, ho realizzato un altro grande progetto, su un condominio multietnico in Italia, che si chiama Hotel House, fino ad arrivare a Nessuno Escluso. Nessuno Escluso è un progetto nato in Sahara occidentale, dove parte del lavoro era basata proprio sulla diversità e sulla disabilità. Una volta tornato in Italia mi era venuta questa curiosità e ho cercato così di scoprire in che maniera viene percepita la diversità nei contesti sociali. C’è stata così un’evoluzione del mio approccio alla fotografia: da una fotografia basata sul vissuto e sul reale, all’approfondimento, alla ricerca e alla trasposizione su libri e mostre. La disabilità ha fatto nascere in me questa curiosità nel capire cosa vuol dire la normalità. Su cosa si basa la definizione del normale? Utilizzo la fotografia, appunto, per approfondire questa curiosità. E lo faccio tramite racconti e storie di persone che ho avuto la fortuna di incontrare in cinque anni e in quindici paesi del mondo.
In “Nessuno Escluso” è fondamentale la relazione con l’altro. C’è una fortissima dimensione sociale. Come ti sei avvicinato a queste realtà? Qual è stato il tuo approccio fotografico con queste persone? Sei arrivato in quei contesti come sconosciuto, giusto?
No, io sono arrivato in questi contesti come persona. E in qualità di persona ho incontrato altre persone. Forse è cambiato il mio modo di vedere da quando ho iniziato a viaggiare, ma tendo a percepire meno queste differenze. Ovviamente io vengo da un altro contesto, quello europeo (anche se sono presenti paesi europei all’interno del progetto), però l’approccio è stato da-persona-a-persona. Ed è stato fondamentale per raccontare le storie di persone con disabilità, perché queste non vengono mai raccontate o, se vengono raccontate, viene fatto tramite metodi narrativi che aumentano gli stereotipi. Non c’è niente di particolare: c’è semplicemente il viaggiare e l’incontrare persone che siano in linea con la ricerca che stai effettuando. Quindi mi sono mosso tramite escamotage, collaborazioni con organizzazioni locali che mi aiutavano in questa ricerca e, soprattutto, con il passaparola. E poi, in paesi come la Mongolia o l’India, sono letteralmente andato di casa in casa; nelle aree remote andavo di tenda in tenda, da nomade a nomade, e chiedevo consiglio. Mi sono sentito di approcciare persone come me, che vivono la loro vita. E mi sono sentito di incentrare questa ricerca sul sentimento e sulla condivisione, sensazioni che io, come fotografo, cerco di far emergere attraverso le immagini. Viaggiando mi sono reso conto che stavo seguendo un filo rosso, quello che mi faceva chiedere direttamente alle persone come volevano che la loro storia venisse raccontata. E questo non vuol dire che hanno scelto l’inquadratura, ma il contesto. Tutti hanno scelto di essere rappresentati con la famiglia, con gli amici, a lavoro, andando contro quella tipica attenzione all’anormalità. È quindi un progetto collettivo: mio e di tutti i protagonisti delle fotografie.
E questo approccio da-persona-a-persona può essere quindi considerato sia un’origine che un risultato di questo tuo progetto?
Assolutamente sì! Questo viaggio è anche il racconto di come il mio sguardo è cambiato. All’inizio percepivo l’esistenza di due mondi quasi separati. E questa cosa, per fortuna, è sparita viaggio dopo viaggio. Dico sempre questa frase di Franco Basaglia, ma mi piace ripeterla: “da vicino, nessuno è normale”. E, con il mio lavoro, ho capito che nessuno è normale, o forse lo siamo tutti. È un concetto molto liquido.
Hai mai avuto difficoltà in questo viaggio?
Infinite! La maggior parte delle difficoltà sono legate alla difficoltà intrinseca del viaggio: la solitudine; lo stare in un Paese per tanto tempo; la lingua; il cibo; il clima. Tutte situazioni in cui si esce dalla propria comfort-zone. Io, per come sono fatto, cerco sempre di spingermene fuori, perché è il momento nel quale mi sento vivo.
Le tappe come sono state decise, giorno per giorno?
Le prime sono state scelte in maniera molto romantica: facendo ruotare un mappamondo e fissando un dito. Il primo Paese scelto è stato l’Ecuador, che poi è stato l’ultimo che ho visitato per chiudere il progetto. Possiamo dire che il viaggio nasce e finisce lì. Le altre tappe, invece, sono legate alle opportunità che si sono create durante il percorso. Sapevo però che volevo creare una rete tra l’Africa, l’Asia, l’America Latina, l’Europa, per coprire quante più culture e contesti sociali possibili. I primi tre sono stati Ecuador, Romania e Nepal, dove in quest’ultimo sono arrivato in piena emergenza durante il terremoto del 2015. Ed è stata una difficoltà, ma quelle fotografie testimoniano come in certe situazioni le persone con disabilità vengono lasciate indietro.
Quanto ti senti cambiato dalla conclusione di Nessuno Escluso? Non solo rispetto al tema, ma anche come fotografo.
Mi sento sicuramente maturato come persona. Non so se per questo progetto, ma gli anni passano e il Christian di oggi è diverso rispetto al Christian di dieci anni fa. Viaggiare mi sta facendo comprendere che non esiste una sola verità o realtà, ma ne esistono tante. A livello fotografico, credo che io abbia delineato cosa mi interessa realmente. Chi fa questo lavoro conosce bene che, alla varietà dei progetti che uno vuole realizzare, si mette di mezzo il mercato e il rischio è quello di finire a realizzare lavori che non ti piacciono. È un percorso insidioso quello del fotografo. È fondamentale capire la direzione in cui si vuole andare. Magari anche sbagliando, ma è fondamentale avere le idee chiare.
Dicevi, durante l’inaugurazione della tua mostra, che conoscevi già Witness Journal e che hai già collaborato con noi! Ti ricordi quando o in che occasione?
Era uno dei primi numeri. Un lavoro fotografico realizzato a Roma su alcuni tuffatori che si lanciavano dal trampolino. Erano delle fotografie in silhouette. Se non ricordo male, era stato usato anche come copertina del numero. Quando un giornale ti dà attenzione – soprattutto un giornale di fotografia – ti dà forza e ti fa dire “forse, quello che faccio, piace a qualcuno”. Così, ti spinge ad andare avanti. Ecco, me la ricordo come esperienza molto bella. Mi ricordo anche di aver scritto un testo sull’oltrepassare le paure. Mi chiedevo, infatti, come facessero questi tuffatori a tuffarsi da così in alto. Se lo rileggessi oggi, sicuramente mi metterei a ridere. Ma è un ricordo importante: perché la paura è quella sensazione che ci paralizza, no? Credo che per tanti fotografi ci sia tanta paura su moltissime cose, una fra tutte la sicurezza economica. E quindi molti lasciano perdere. Secondo me, però, non è tanto una questione di coraggio, quanto di avere le idee chiare.
Per chiudere, quali consigli daresti a un giovane fotografo che vuole vivere con la fotografia?
È pericoloso dare consigli in questa direzione. Non me la sento perché non lo so, non c’è una formula magica. Come ripeto, è fondamentale avere chiaro dove si vuole andare e cercare di arrivarci, anche con dei sacrifici. È risaputo che i grandi maestri della fotografia, per certe fasi della loro vita, hanno fatto tutt’altro. Ci sono tante fasi nella vita di un fotografo. Alla fine, c’è bisogno di un’ossessione. Per me, è il primo pensiero al mattino e l’ultimo alla sera. Non tanto la fotografia, ma la mia ricerca, con la volontà di proseguire questo percorso. Consiglio, infine, di studiare tutto. Essere preparati, leggere tanto, informarsi. Fotografia, come la pittura e qualsiasi altro tipo di espressione, è voglia di esprimere cosa c’è dentro di noi.