Di Alessio Chiodi / Foto di Antonio Oleari
“Nonno, raccontaci una storia”
“Sì, vi racconterò di quando andavo a pesca al lago e tornavo a casa con grandi carpe!”
Una situazione questa non così distante dalla realtà nella repubblica autonoma di Karakalpakstan in Uzbekistan dove del “mare” d’Aral, il più grande lago di acqua salata al mondo, non esiste che il ricordo. Solo i più anziani possono raccontare come si viveva sulle coste di questo immenso bacino d’acqua, ricordando della pesca e delle navi che lo attraversavano in lungo e in largo. Antonio Oleari, membro della redazione di Witness Journal, è stato a visitare quello che è stato il porto più importante dell’Uzbekistan sul lago. E infatti, proprio come spiega l’autore, la strada sì ferma lì, a Moynaq e non va oltre.
Cimitero navale
Moynaq era una città che pullulava di vita e attività legate alla pesca. Oggi di quei battelli e pescherecci rimangono solo gli scheletri di metallo corroso adagiati sul suolo salato di ciò che fu il fondo del “mare”. L’acqua ha iniziato a ritirarsi già dagli anni ’60, lasciando il porto all’asciutto circa vent’anni dopo. Oggi il 90% del lago è sparito e secondo alcuni analisti anche il restante 10% potrebbe sparire entro il 2020. Seppur il ritiro delle acque è stato considerato un fenomeno naturale intervallato dai ritorni della marea, stavolta le speranze di rivedere riattivarsi il processo sono al lumicino. L’inquinamento, il riscaldamento globale e lo sfruttamento intensivo dell’uomo in epoca sovietica hanno modificato forse irrimediabilmente questo territorio. A Moynaq non è rimasto nulla. Stessa sorte per la sua controparte kazaka, Aral, anch’essa desertificata a causa del ritiro delle acque. Fino a cinquant’anni fa 150 mila persone dipendevano da questo lago e dai suoi affluenti, Amu Darya ed il Syr Darya, entrambi nascenti dai ghiacci perenni rispettivamente del Pamir e del Tien Shan. Al Gore, nel suo libro “Earth in the balance” , ha definito questa tragedia il più grande disastro ecologico della storia dell’umanità.
La vita sull’Aral
Antonio Oleari (qui l’intera galleria) sposta l’obiettivo della sua macchina fotografica dallo scenario desertificato in cui giacciono le navi inutilizzate ai volti delle persone che vivono ancora a Moynaq. La grande fabbrica di lavorazione del pesce è stata ormai quasi del tutto abbattuta, i giovani che un tempo avrebbero avuto un futuro sulle navi peschereccio dei loro nonni devono emigrare oppure reinventarsi in una nuova professione, magari strizzando l’occhiolino ai turisti che ogni anno vengono a vedere quel deserto di sale che d’inverno si trasforma in una grande spianata bianca coperta di neve.