Intervista a Francesco Faraci

Il fotografo per tre anni ha documentato la dimensione quotidiana dei piccoli "malacarne" palermitani nella periferia della città

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Di Davide Barbera / Foto di Francesco Faraci

“Malacarne” è un prodotto di bassa macelleria. In senso figurato, una persona “disonesta e malvagia”. Recita così il vocabolario Treccani. Del resto, l’esempio a corredo della definizione parla chiaro: “Non ti fidare, è un malacarne”. È evidente che Francesco Faraci non sia tipo da diffidenze preconcette. Per tre anni ha documentato la dimensione quotidiana dei piccoli “malacarne” palermitani nella periferia della città. “Alcuni li ho visti perdersi, altri li ho visti ritrovarsi”, dice Francesco, “nascere in un quartiere malfamato, non fa di te uno spacciatore”. La delinquenza non è il frutto di un’equazione matematica. Dopo la pubblicazione di “Jova Beach Party – Cronache da una nuova era”, Faraci torna a parlare della sua terra con “Atlante Umano Siciliano”: tre parole che funzionano sia insieme che distinte, come tre concetti a se stanti. Un viaggio nelle viscere della Sicilia, tra lo spopolamento delle zone più remote e la loro disperata vitalità.
Di seguito, la nostra intervista all’autore.

Malacarne, intervista a Francesco Faraci

Come ogni isola che si rispetti, la Sicilia non è soltanto la parte di un tutto, ma un tutto a parte. Al contrario l’atlante è per definizione una raccolta sistematica, esauriente, che in qualche modo appiana le differenze. Come si è sviluppato il progetto?

“Atlante Umano Siciliano” è nato grazie ai viaggi di lavoro insieme alla mia compagna, nei paesini più sperduti della Sicilia. Lei era di turno in guardia medica ed io ne approfittavo per girovagare. Durante queste scorribande mi resi conto di come questi luoghi, una volta affollati di gente e di vita, subivano un veloce processo di spopolamento. La prima idea fu quella di documentare il fenomeno. Andavo in giro per i paesi – paesi perlopiù fantasma – abitati da anziani, bambini… e da ragazzi, che alla prima occasione avrebbero fatto le valigie e sarebbero fuggiti via. Più proseguivo con il progetto, però, più capivo che in realtà stavo facendo i conti con me stesso. Era il periodo immediatamente successivo alla pubblicazione di “Malacarne”, che stava già facendo la sua strada ed io ero in totale crisi. Sono arrivato alla fotografia un po’ per caso, mai avrei pensato di farne un mestiere. Così, dopo il primo libro, mi chiedevo cosa sarei riuscito a raccontare. E come tante volte nella mia vita, le cose sono arrivate un po’ da sé, stavolta grazie all’opportunità di visitare la Sicilia in lungo e in largo. Sono stati 20.000 chilometri, qualcosa come tre o quattro volte il giro dell’intera isola. Scoprivo il mondo, ma scoprivo anche me stesso, in questi paesi dove nonostante lo spopolamento c’era ancora tanta energia vitale.

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Alla fine il mio atlante è una raccolta di tutta l’umanità che ho incontrato: tutte le fotografie che ho fatto rappresentano un incontro che ho vissuto. Mi sono imbattuto in una colonia di gitani e per un po’ ho viaggiato con loro, ho dormito con loro, ho assistito alle loro funzioni religiose. Per me è stato un lavoro di catarsi, in cui ho fatto pace con me stesso e con tanti aspetti del mio carattere. Questo atlante non è da intendersi come una mappa geografica, né come qualcosa di lineare. Il mio viaggio non aveva una direzione che non fosse quella di scoprire i miei limiti e il concetto di confine. Atlante umano siciliano: tre parole dal senso compiuto, dove ognuna di esse ha un significato a sé.

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Cosa rende diverso l’atlante siciliano dal resto? Qualcosa ci accomuna?

Il termine “accomunare” lo associo alla presenza di una diversità. In realtà non c’è alcuna diversità. Cerco sempre di dare alle mie fotografie un connotato che non sia provinciale, ma universale, attraverso i gesti, gli sguardi. Attraverso ciò che accade, che poi succede un po’ ovunque, se si ha l’attenzione di guardare meglio. Mi piace che le immagini abbiano diversi livelli di lettura e possano arrivare a tutti, nel senso che chi le guarda se ne sente risucchiato perché ci si riconosce. Per me la fotografia non è mai una cosa soltanto, né il fine: è il mio modo di essere nel mondo. Per questo non lo reputo un mestiere. È un prolungamento dei miei occhi, grazie al quale non fotografo la realtà, ma cerco di creare un immaginario partendo da quelli che sono i miei incontri.

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Quello dei tuoi “malacarne” è un atlante prima dell’Atlante, diciamo così. Un mondo a sé, ma dal respiro universale, come aspira ad essere la tua fotografia. I bambini che ritrai potrebbero essere quelli delle periferie di Milano o Buenos Aires. Da cosa scaturisce il progetto? Ti sei rivisto in loro?

“Malacarne” è nato in maniera inconsapevole. Premetto che anche io sono nato e, per un po’, cresciuto in uno dei quartieri che ho fotografato. Lì un giorno incontrai uno scricciolo di dieci anni, che mi chiese un passaggio in scooter per accompagnarlo dalla madre che lavorava in una casa di cura. Lungo il tragitto mi raccontò praticamente tutta la sua vita, di suo padre che entrava ed usciva dal carcere, dei fratelli – era il più piccolo di cinque o sei – che avevano intrapreso strade abbastanza rischiose. Lo raccontava con malinconia e soprattutto con la consapevolezza che si addice ad un adulto, non certo ad un bambino. Arrivati a destinazione, mi guardò e disse: “Io non ho intenzione di fare la fine di tutti gli altri”. Questa frase mi ha segnato parecchio. Guardandolo andare via di spalle fu come rivedere me stesso, da piccolo, a giocare per le vie, a sbucciarmi le ginocchia. A fare la vita che fanno i ragazzini di strada, in sostanza.

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Mi venne voglia di ritornare in quei luoghi, per vedere cosa fosse cambiato. Ciò che mi piovve addosso appena messo piede nel mio vecchio quartiere, furono proprio loro, i bambini. Per questo dico che fotografarli è stato solo una conseguenza. Sono rimasto con loro per tre anni, trascorrendo insieme ogni giorno. Grazie alla costanza del nostro rapporto ho assistito alla loro crescita, li ho visti maturare. Alcuni li ho visti perdersi, altri ritrovarsi. Mi sono rivisto in loro, tanto che potrei dire di aver fotografato innanzitutto me stesso – e l’esperienza che abbiamo condiviso insieme – prima che, genericamente, i ragazzi della periferia palermitana.

Alcuni dei tuoi paesaggi sembrano in sintonia con quelli che facevano da sfondo al cinema neorealista. Hai ammesso che l’intento iniziale era di denuncia, come si è evoluto?

È partito come progetto di denuncia, ma presto ho capito che quest’approccio era fuorviante. Era talmente tanto l’affetto che provavo nei confronti di questi ragazzi, dei loro genitori, che relegarlo alla denuncia sarebbe stato un limite. Sono anche del parere che la denuncia, quando c’è, è intrinseca. È chiaro che quando scegli di raccontare determinati contesti fai una scelta, che è politica, sociale. Attraverso questa scelta si capisce da che parte stai. Quello che mi importava evidenziare era la condizione dei miei soggetti, quella di bambini, che hanno i medesimi istinti sia a Palermo, che a Milano o a Buenos Aires. Spesso vengono marchiati da un soprannome, “malacarne”, un dispregiativo, dimenticando che il quartiere in cui nasci non qualifica automaticamente la persona che sarai. Tornando alle intenzioni, tutti i miei progetti sono partiti con un intento e sono diventati tutt’altro. Vivo la fotografia a 360 gradi, per me è l’esperienza a contare realmente. Il mio corpo, insieme alla macchina fotografica, diventa il tramite con cui veicolare un messaggio.

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Chi ha a che fare con il mondo dell’immagine conosce gli ostacoli che si incontrano lavorando con dei minori. Oltre che alle difficoltà di approccio con i soggetti, mi riferisco a quelle editoriali. Poi, come si è arrivati al libro?

All’inizio ho avuto qualche difficoltà, ovviamente ero visto come un agente esterno, quello che vuole smuovere le cose. È stato impegnativo abbattere la loro diffidenza iniziale. Poi mi sono mostrato, come sempre, con la massima sincerità: “nudo”, senza secondi fini o pregiudizi. In contesti del genere è importante che tu tenga fuori il tuo giudizio personale, perché nel momento in cui ti ergi su un piedistallo, chi hai davanti se ne accorge e tende a chiudersi. Al libro ci si è arrivati col tempo, una volta presa consapevolezza dell’organicità del lavoro. Stefano Bianchi, l’editore di Crowdbooks, è letteralmente venuto a bussarmi alla porta. Aveva visto le mie immagini pubblicate sul sito di Vice e credeva fosse interessante pubblicarle.

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Fare un libro è sempre un’avventura, è il momento in cui rivivi l’emozione dello scatto e dell’esperienza in sé riguardando le immagini che hai prodotto, provando a dare una direzione al tutto, ridiscutendo le tue scelte. È una gran figata! Sarà che per me il libro è un oggetto sacro. Con il tempo mi sono reso conto che ogni mio progetto è orientato alla forma-libro. Da lettore accanito quale sono, trovo sempre delle risposte nelle mie letture. Magari poche e fuggevoli, ma qualcosa viene fuori! Ci sono state anche delle critiche, fotografare dei minori è spesso un salto nel vuoto. Ho imparato che le critiche sono utili solo se costruttive, se orientate all’apertura di un confronto. Se avanzate senza la voglia di conoscere meglio ciò di cui si sta parlando, sono polemiche sterili.

C’è l’intenzione di continuare il progetto o lo consideri chiuso?

È un progetto che ho chiuso, ma solo a livello editoriale. Negli anni – ne sono passati quasi quattro – questi ragazzi continuo a vederli spesso ed è sempre una festa. Ci si vuole bene, ormai sono come dei miei fratelli minori. Fino a poco fa, per strada, ho incrociato uno di loro ed è venuto ad abbracciarmi. Questo è il bello che ti rimane: i rapporti, l’umanità, la benevolenza.

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“Malacarne” ti ha assorbito totalmente in quanto fotografo e palermitano. Se entrare dentro un progetto è spesso difficile, nel tuo caso deve esserlo stato anche uscirne. Ha cambiato il tuo rapporto con la città?

“Malacarne”, ma più in generale la fotografia, ha cambiato enormemente il mio rapporto con la città. Attraverso il mirino della macchina fotografica è come se Palermo l’avessi rivista per la prima volta. Ancora oggi è così, riesce a stupirmi. Più dell’elemento architettonico – gli edifici, i vicoli, i monumenti – che rimane immutato, a sorprendermi è l’elemento umano. Rende gli spazi sempre diversi ed è una cosa che adoro. Riesco ancora a meravigliarmi, trovo parole nuove, stimoli continui per andare avanti. Non credo a chi pensa che i luoghi, ad un certo punto, smettono di avere qualcosa da dire. Al contrario, credo ce l’abbiano sempre, anche quando sembrano esauriti.

Stai lavorando a qualcosa di nuovo?

Il presente ha bussato alle porte in maniera prepotente con tutto quello che è successo. A modo mio sto documentando questo periodo, provando a dare un senso al silenzio e alla fragilità del momento. La mia reazione alla paura è stata proprio questa, rimettermi in strada, avendo anche la fortuna di poterlo fare grazie a dei lavori commissionati. Sto lavorando ad un libro insieme ad altri fotografi su questa storia. Poi nel 2021 è prevista la pubblicazione del mio nuovo romanzo e farò un viaggio in Italia lungo tre mesi, di cui però ancora non posso rivelare nulla.