Testo a cura di Davide Barbera
Cosa hanno a che fare i lustrini e i riflettori dello star system hollywoodiano con un manipolo di impavidi fotoreporter tra i più stimati al mondo? Da un lato i padri fondatori del fotogiornalismo moderno, dall’altro il cinema e il regno della fiction per antonomasia. Reportage e fotografia di scena: a primo acchito è difficile concepire il nesso tra due mondi talmente distanti. Difficile se non impossibile, solo a patto di rimanere imbrigliati tra categorie che semplificano, riducono e annullano la scala di grigi che dal bianco di una definizione scivola gradualmente nel nero di un’altra. Ma la fotografia non sarà mai pane per i denti dei manichei. Fin dalla nascita considerata la “sorella disabile dell’arte che si fa a macchina” – secondo l’intuizione (in)felice di Cesare Colombo – è per costituzione materiale resistente ad etichette e dualismi, che con la messa in scena ha sempre giocato come si fa col fuoco: consapevole dei rischi e noncurante allo stesso tempo. Doveva saperlo bene Robert Capa, memore del polverone di sospetti sollevato fin da subito sulla veridicità del suo miliziano morente; tuttavia Capa, si sa, non fu soltanto un fotografo di talento. Per un uomo come lui, appassionato dalla vita e dalle donne, le sirene di Hollywood si rivelarono presto un richiamo irresistibile. E non fu il solo a subire il fascino della settima arte.
Chiuderà i battenti il 13 novembre l’esposizione “Magnum sul set. I grandi fotografi e il cinema”, curata da Maurizio Vanni e allestita presso gli spazi del Lu.C.C.A. – Lucca Center of Contemporary Art. La mostra compone un articolato percorso del dietro le quinte attraverso 116 fotografie, realizzate sui set di dodici classici del cinema dai più noti fotografi dell’agenzia Magnum: W. Eugene Smith, Inge Morath, Jean Gaumy, Burt Glinn, Erich Lessing, Dennis Stock, Eve Arnold, Cornell Capa, Henri Cartier-Bresson, Bruce Davidson, Elliott Erwitt, Ernst Haas, Erich Hartmann, Nicolas Tikhomiroff, Bruce Davidson, David Hurn, Peter Marlow, Gueorgui Pinkhassov. L’afflusso della compagine Magnum sul jet-set hollywoodiano determinò nell’ambito della fotografia di scena un ribaltamento della sua concezione originale (ovvero quella di un genere affrontato con competenza, ma votato perlopiù all’aspetto commerciale della pellicola). Fino ad allora, l’interesse principale dei fotografi era stato quasi esclusivamente quello di assecondare le necessità promozionali del prodotto, realizzando immagini che non si distaccassero troppo dalla visione del regista e garantendo alla produzione né più né meno di quel che esigeva. L’esatto contrario si verificò nei servizi realizzati dagli adepti della celebre agenzia, spesso agevolati dai rapporti di sincera amicizia che li legavano ai divi dell’epoca; si aggiunga, infine, il forte senso d’indipendenza che contraddistingueva il modus operandi dei fotografi Magnum…les jeux sont faits.
La fotografia à la Cartier-Bresson sbarca negli Studios, ma la scuola del “momento decisivo” si rivela interessata a situazioni che decisive, fino a quel momento, non lo erano affatto: l’assunto per cui la buona foto di scena debba ammiccare al suo potenziale pubblicitario viene sovvertito. Si predilige documentare i momenti di pausa, gli attimi di convivialità tra la troupe e gli attori, l’ironia dei personaggi in costume immortalati al di fuori delle riprese. Un backstage nel backstage. In questa direzione si muove il lavoro di Dennis Stock sul set de “Il pianeta delle scimmie”, di Franklin J. Schaffner, dove la presenza di inquietanti uomini-scimmia fa da contraltare alla normalità dei paesaggi urbani. Persino bizzarro può risultare associare il clown di Chaplin in “Luci della ribalta” all’occhio di W. Eugene Smith, autore della struggente “pietà” di Minamata. Ad ogni modo non mancano le immagini divenute icone, come la Marilyn di Elliott Erwitt alle prese con l’abito bianco che si solleva al passaggio della metropolitana. E le relative curiosità: la scena venne ripetuta in studio. La folla accorsa per godersi quello spettacolo era talmente numerosa che il brusio di fondo aveva reso impossibile la registrazione di un audio sufficientemente pulito. Si arriva poi ad approcci più ermetici e sperimentali come quello di Bruce Davidson, che nel suo personale racconto di “Zabriskie Point” trasfigura l’estetica di Antonioni, ricomponendo le inquadrature e talvolta avvalendosi di bande nere ai bordi del fotogramma. Uno stratagemma utile all’esaltazione dei colori, ma che tradisce un concetto più profondo: la realtà straripa oltre, non si esaurisce nella rappresentazione della scena.
L’insieme di questi ritratti coglie di sorpresa i codici percettivi dello spettatore, disorientandolo e trascinandolo in un universo parallelo sempre in bilico tra realtà e un’illusione costruita ad hoc. La maestria dei fotografi della Magnum ci conduce attraverso immagini che restituiscono tutto l’incanto di un cinema che fu.