I veleni di Taranto
Ambiente svenduto, l’inchiesta giudiziaria sulla cosiddetta ex Ilva di Taranto, dopo una lunga fase istruttoria prima e processuale poi, ha concluso in questi giorni il suo iter di primo grado, con una sentenza di condanna che di fatto accoglie come vero l’intero impianto accusatorio. La sentenza, che anche in termini di pene non è stata leggera, mette un punto fermo su tanti aspetti chiave di questa dolorosa vicenda, ma almeno per ora non cambia di una virgola lo scenario presente e futuro dell’acciaieria e ciò non solo perché bisognerà aspettare l’esito anche del secondo e terzo grado di giudizio. Una legge varata dal governo Monti nel 2012, la 231, qualifica infatti l’ex Ilva come stabilimento “di interesse strategico nazionale” prevedendo al contempo che tali siti possano proseguire temporaneamente (fino a 36 mesi) l’esercizio ai fini della completa attuazione delle prescrizioni contenute nell’AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale). Ecco perché la confisca degli stabilimenti prevista dalla sentenza non potrà trovare applicazione, così come l’area industriale, pur restando sotto sequestro, potrà ugualmente continuare la sua normale attività sotto l’egida degli attuali gestori, ossia il gruppo AlcelorMittal.
Stando così le cose verrebbe da pensare che quello appena scritto dal tribunale non sia che un altro capitolo inutile di una storia sbagliata fin dall’inizio ossia quando, nei piani di sviluppo del Mezzogiorno dei primi anni Sessanta, Taranto o meglio un suo quartiere, venne scelto come sede di quella che sarebbe presto diventata la più grande acciaieria d’Europa, con i suoi oltre 15 milioni di metri quadrati di superficie. Se, per convenzione, l’ignoranza dei rischi ambientali è almeno parzialmente un alibi fino al 10 luglio del 1976, data del disastro di Seveso, le responsabilità politiche e amministrative che porteranno a ignorare il rischio per salute e territorio nei decenni successivi, sono assurde oltre che clamorosamente sotto gli occhi di tutti.
In questo quadro, triste e deprimente, la sentenza di primo grado, per fortuna, ha comunque una grande importanza: per la prima volta gli organi giudiziari hanno acclarato il rischio e i danni ambientali e sanitari causati dall’acciaieria tarantina, individuando e condannando di conseguenza le aziende e le persone responsabili. Da oggi dunque, dire che la diossina avvelena Taranto e i suoi abitanti non è più solo un’opinione ma un dato di fatto che non potrà essere ignorato da tutti, compresi coloro i quali, grazie ai fondi del recovery fund, avranno finalmente gli strumenti per fare due cose che aspettano di essere realizzate da almeno quarant’anni: bonificare il territorio e avviare una transizione rapida dello stabilimento che trasformi questo dinosauro industriale, in un progetto al passo coi tempi, sicuro per chi ci lavora dentro e per chi ci vive di fianco. In una parola, sostenibile.
Amedeo Novelli
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