Di Alessandro Balduzzi / foto dell’autore
In occasione della tragica esplosione del 4 agosto nel porto di Beirut, un paio di esponenti della politica italiana espressero prontamente la propria solidarietà al popolo libico. Errore veniale – ma non troppo – al pari di chi scambia la Slovacchia con la Slovenia o l’Australia con l’Austria. Non vogliamo immaginare l’ulteriore confusione che causerebbe loro venire a sapere che la seconda città del Libano è omonima della capitale libica. Messa in ombra dalla Beirut cuore pulsante della fu Svizzera del Medio Oriente e destinazione dei portatori di miliardi citati da Rino Gaetano, Tripoli si trova nel nord del paese dei cedri e rappresenta un agglomerato urbano di circa 500 mila abitanti per la maggioranza sunniti (80 per cento). Malgrado un centro storico sì trascurato ma certo di gran lunga meno straziato dalla guerra civile e dalla speculazione edilizia di quanto non sia stato quello di Beirut, la seconda città del Libano è una cenerentola polverosa marginalizzata da una politica e da un sistema economico incentrati sulla capitale.
Quando un’economia più florida dell’attuale lo permetteva, si tentò tuttavia di ovviare allo squilibrio che vedeva Beirut calamitare investimenti e potere e il resto del paese restare a bocca quasi asciutta. Prodotto di questo tentativo – largamente fallito – è un incompiuto gioiello dell’architettura contemporanea: il sito espositivo “Rachid Karami”, progettato da Oscar Niemeyer e collocato nella parte nord-occidentale di Tripoli, tra il centro storico e il mare. Dopo essere diventato presidente della Repubblica libanese nel 1958, Fouad Chehab decise di intraprendere un’iniziativa di decentramento in cui rientrò anche la seconda città del paese. Fiore all’occhiello doveva essere un sito destinato a ospitare eventi di levatura internazionale capaci di attrarre l’interesse e i capitali stranieri in direzione del Libano e in particolar modo delle sue regioni settentrionali. Si decise di affidarne la progettazione all’architetto brasiliano il quale – terrorizzato dall’aereo – giunse in Medio Oriente via mare e trascorse a Tripoli qualche mese. L’inventiva di Niemeyer si espresse su una superficie di un milione di metri quadri in forme astratte di cemento riecheggianti sue altre creazioni, innanzitutto Brasilia.
Mentre per erigere dal nulla la nuova capitale del Brasile bastarono quattro anni, però, la realizzazione del polo espositivo tripolino – in seguito intitolato a Karami, politico originario della città otto volte primo ministro – si protrasse per un decennio buono, impantanata in lacciuoli burocratici, espropriazioni ed errori di costruzione. A mettere la parola fine al progetto la guerra civile scoppiata nel 1975, con il contestuale ingresso in Libano delle truppe siriane e l’utilizzo della fiera come caserma da parte dei militari di Damasco fino ad anni Novanta inoltrati.
Prima dello scoppio del conflitto, tuttavia, avevano già visto la luce quindici edifici. Gli stessi che il visitatore odierno si trova davanti quando varca la soglia del complesso. Quest’ultimo non è esattamente di facile accessibilità, non tanto dal punto di vista fisico quanto dal punto di vista psicologico. Posto al di fuori del centro stricto sensu di Tripoli, ha il suo accesso principale in un cancello presieduto da una guardia. Quest’ultima non si è opposta al mio ingresso, ma considerando l’esigua quantità di visitatori all’interno del complesso la sua reazione potrebbe non essere la stessa se al cancello si presentasse un cittadino locale. Se a ciò si aggiunge che il sito è stato lungamente base di un esercito occupante, i dubbi sul desiderio di un locale di visitarlo e delle autorità di incentivarne la visita acquisiscono maggior consistenza (una dinamica simile ha interessato il cosiddetto Horsh Beirut, unico parco di dimensioni significative della capitale libanese, inaccessibile per 25 anni alla popolazione locale, al contrario degli stranieri che previa richiesta di un permesso potevano accedervi; dal 2015 è aperto alla generalità del pubblico).
Una volta varcato il presidio della guardia giurata, ad aprirsi agli occhi del visitatore è uno scrigno di inaspettata bellezza. L’austerità del cemento è declinata in forme astratte che parrebbero confacersi maggiormente a un insediamento lunare che alla fiera di una città mediorientale. La distanza tra quest’ultima e la creazione di Niemeyer è accentuata dall’assenza di concessioni all’architettura vernacolare, se non per gli echi tra l’ottomano e il veneziano rappresentati dagli archi ogivali che cingono il padiglione libanese. Quest’ultimo sarebbe dovuto essere circondato da uno specchio d’acqua, in un gioco di riflessi di pronto rimando al complesso Mondadori progettato sempre da Niemeyer a Segrate. All’interno del complesso si trova poi un teatro cosiddetto “sperimentale”, composto da una cupola in cemento; all’interno avrebbero dovuto trovare spazio un migliaio di posti a sedere sistemati attorno a un palcoscenico centrale di altezza regolabile tramite un sistema di martinetti idraulici.
Poco più in là, una piccola pista di atterraggio per elicotteri che richiama la forma di un loto; il grigio della struttura in cemento avrebbe dovuto contrastare con una scala a chiocciola per raggiungerne la cima, rossa accesa nei progetti ma ora scrostata di un bianco punteggiato di ruggine. In un ambiente seminterrato proprio al di sotto della pista era stata poi decisa la collocazione di un museo dell’esplorazione spaziale: la corsa alla conquista dell’universo degli anni Sessanta è in effetti il fil rouge che mette in relazione le varie componenti del complesso. Cardine di quest’ultimo è – per centralità geografica e pregnanza visiva – il teatro all’aperto. Tramite una rampa sovrastata da un arco si giunge in cima alle gradinate su cui negli anni Novanta sono state collocate sedute in plastica bianca. Di fronte alla platea, si colloca l’isolotto in cemento del palcoscenico. Stando al progetto originale, questo sarebbe dovuto essere circondato d’acqua al pari del citato padiglione libanese.
Al contrario di altre strutture del polo fieristico, questo palco – sovrastato da un amplificatore di suono in cemento battezzato da Niemeyer “vela acustica – è stato utilizzato per performance e concerti negli anni Novanta, prima di essere nuovamente abbandonato sull’onda delle violenze che nel 2005 avrebbero condotto all’uccisione dell’allora premier Rafiq Hariri. Infine, una struttura a forma di boomerang lunga 717 metri e profonda settanta la cui copertura è sorretta da due file di colonne era destinata ad accogliere gli ambienti espositivi dei vari paesi, escluso il Libano cui era destinato l’apposito padiglione indipendente.
Nel 2006, la fiera internazionale di Tripoli è stata inserita dall’organizzazione no profit World Monuments Fund in una lista dedicata a cento siti monumentali a rischio di conservazione. Un gesto dall’alto valore simbolico che ha contribuito ad attirare l’attenzione della società civile locale sul complesso tripolino di Niemeyer. Attenzione ben visibile nella cura che caratterizza gli spazi verdi che separano le varie strutture del sito, in immediato contrasto con il deterioramento cui indulge il cemento e le armature arrugginite degli edifici. L’anno scorso è stato poi lanciato un bando da parte dell’International Union of Architects (Uia), della Lebanese Federation of Engineers and Architects, dalla Union of Mediterranean Architects (Umar) e dal governo libanese per la creazione di un hub di sviluppo tecnologico in un’area non edificata del polo espositivo, con l’obiettivo di attrarre investimenti verso Tripoli. La tragica esplosione di Beirut e la distruzione di larga parte del suo porto può indirettamente giovare alla seconda città del Libano – paese che importa circa l’80 per cento del proprio fabbisogno alimentare – grazie a un dirottamento dei flussi commerciali verso il suo scalo. Allo stesso modo, la futura ricostruzione della vicina Siria è suscettibile di attirare le mire dei grandi investitori – la Cina è già tra questi – sul vicino porto di Tripoli. Ciononostante, la critica congiuntura economica, politica e sanitaria allontana dall’orizzonte la rinascita della creazione di Niemeyer. Lasciandola per il prossimo futuro alle sole passeggiate simil-lunari di sporadici visitatori.