Ho scelto di intervistare Mario per molte ragioni ma ce ne sono due alle quali tengo particolarmente. La prima è che Mario è un fotoreporter di lungo corso, libero e consapevole del suo ruolo sociale, la seconda che è membro del consiglio nazionale dell’OdG e questo rappresenta a mio avviso un valore aggiunto, perché lo rende portatore di un punto di vista significativo. Oggi, credo più che mai, il nostro mestiere si trova davanti a sfide e difficoltà molto complesse.
La spinta individualistica, tesa alla sopravvivenza, che sempre più caratterizza il nostro modo di relazionarsi ai colleghi e alla società nella quale viviamo, ci fa perdere di vista gli interlocutori o ci rende incapaci di crearne di nuovi perché noi stessi, forse, non riusciamo a essere interlocutori di nessuno. Non è solo una questione di autoreferenzialità professionale ma una cultura dell’agire collettivo che anche tra di noi si è persa e che è il momento di provare a ricostruire.
Cosa ha significato per te, nella tua vita, il lavoro di fotogiornalista?
Io la fotografia l’ho utilizzata solo per fare quello che per me era importante: incontrare la gente, conoscere le loro storie. A me la macchina fotografica mi è servita per questo: incontrare le persone vedere la loro vita, condividere con loro delle storie, poi, solo dopo, ho fatto anche le fotografie.
Quando hai iniziato questo lavoro?
Ho iniziato a lavorare come art director, lavoravo in un’agenzia pubblicitaria. Mi occupavo delle campagne di comunicazione per il sapone neutro e per la schiuma da barba ma sentivo la vita fuggire via. Era un periodo in cui sembrava che per la volta i poveri dovessero diventare padroni del mondo e vedevo il mondo cambiare e io ero lì e dovevo occuparmi solo di una “saponetta neutra”. Ricordo che mi sono licenziato una mattina all’improvviso. Non dormire la notte pensando a una saponetta neutra con quello che stava succedendo fuori, nel mondo, mi sembrava assurdo. È così che iniziò la mia attività di fotoreporter a circa quarant’anni, a Bologna. Conoscevo la fotografia perché per anni avevo impaginato come grafico una grande rivista in biancho e nero, Skema, che raccontava storie fotografiche, dove ho avuto la possibilità di incontrare e conoscere i più grandi fotografi del mondo.
Mi sono così risparmiato di fare il DAMS ed ho iniziato a lavorare come fotografo.
Come è cambiato il racconto fotografico e come si può raccontare oggi una storia di cronaca?
Una storia di cronaca si può raccontare in questo modo: se tu vivi continuamente la tua professione preoccupato di quello che vuole la redazione del tuo giornale, la tua vita di reporter è finita. Se invece decidi di portare tu le notizie, cercarle e raccontarle allora questo è un buon modo di fare il fotoreporter. Preferisco proporre i servizi perché così posso vivere lo spirito dei miei tempi: se devo raccontare una notizia, inizio due ore prima del fatto e continuo due ore dopo.
Tutto accade prima e dopo. Il mio tempo di lavoro è sempre più lungo del fatto in sé, perché cerco di raccontare anche quello che accade nel tempo fuori della notizia.
Secondo te, è stato giusto pubblicare la foto di Aylan Kurdi, il bambino morto naufrago sulle coste della Turchia ?
Sì per me è stato giusto, però attenzione. Io quelle foto le avrei scattate tutte ma un conto è scattare, un altro è pubblicare: avrei pubblicato quella dove il poliziotto tiene in braccio il corpo ormai morto del bambino. Non avrei pubblicato quella del corpo del bambino riverso lungo la spiaggia, quella è tremenda, non l’avrei pubblicata. Non voglio essere ipocrita: la foto l’avrei scattata, ma poi avrei deciso cosa inviare, cosa selezionare e dunque rendere pubblicabile.
Anche se la Carta di Treviso (Carta deontologica dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti per la tutela della dignità dei minori ndr) prescrive la priorità della tutela del minore al di sopra del diritto di cronaca, è lo stesso Telefono Azzurro che ci sta chiedendo di riportare i bambini nella cronaca.
I bambini devono far parte della cronaca e della storia. Dobbiamo trovare le forme opportune ma non dobbiamo cancellarli dal discorso pubblico. Certo non possiamo fare come come certi giornali che hanno pubblicato le immagini di Fortuna Loffredo, la bambina morta precipitando dal balcone e vittima di pedofilia, sbattendola in prima pagina. Non è così che si parla fotograficamente di abusi sessuali sui minori.
L’equo compenso: come è possibile farlo applicare?
Qui le cose sono due: o riusciamo come OdG a far passare la legge che prevede la riduzione dei fondi pubblici agli editori se questi non pagano in modo dignitoso ed equo gli articoli o i servizi fotografici dei collaboratori oppure è soltanto la forza del singolo fotogiornalista di contrattare il prezzo del proprio lavoro a stabilire l’equo compenso.
Quale ruolo l’Ordine dei Giornalisti può esercitare nei confronti dei fotogiornalisti?
L’Ordine ha il ruolo di garantire la notizia, giusta, vera, controllata. Questa è la più grande conquista dell’Ordine. Il nuovo codice deontologico, entrato in vigore il 3 febbraio 2016, che racchiude tutte le carte scritte negli ultimi venti anni ha questo scopo. Inoltre dobbiamo cercare di migliorare il rapporto con gli editori al fine di costruire un percorso di scambio e di confronto paritario in grado di migliorare la nostra condizione.
Saresti favorevole alla formazione dell’albo dei fotoreporter all’interno dell’Ordine?
Se ci riusciamo sì, ma tu hai presente i fotoreporter? Per molti anni ho fatto il presidente dell’AIRF e la prima cosa che ho cercato di fare è stata quella di mettere in contatto i colleghi, cercare di costruire dei rapporti di amicizia, per discutere, parlare, condividere quelle situazioni professionali comuni del nostro lavoro. A Bologna formammo il gruppo 95, era una realtà di colleghi che si incontrava per amicizia ma che lavorava anche insieme, fornendo materiale fotografico e servizi di un certo livello ai giornali e alle riviste. Ma quelli erano tempi buoni per il fotogiornalismo e non c’era la crisi, adesso che sono tornati i tempi bui, tutto è nuovamente difficile: incontrarsi, collaborare e condividere percorsi comuni. Ognuno lotta per la sua sopravvivenza.
Quali prospettive vedi per il nostro mestiere?
Io credo che se uno pensa di avere la sua macchina fotografica, andare in giro per fare le sue foto, inviarle ai giornali e la mattina dopo contare quante foto ha pubblicato, se uno pensa di continuare così, è finita, non va da nessuna parte. Oggi il fotogiornalista deve essere capace di usare tutti gli strumenti e i linguaggi dell’informazione. Deve diventare produttore e distributore delle proprie immagini, magari costruendo i propri giornali e scegliendo come distribuire i propri contenuti.
Infine credo che per un fotogiornalista sia importante decidere e sapere da che parte stare: se tu stai dalla parte dei “poveri” stai sempre dalla parte giusta. Questo non vuol dire che non puoi andare a fare un servizio a casa di un ricco e potente signore, ci vai, osservi e impari, ma oltre a diventare protagonista di te stesso devi sempre sapere da che parte stare.