Intervista a Simone Donati

Land inc., il business della terra

Intervista a cura di Davide Barbera

A partire dalla crisi alimentare del 2008, il fenomeno del land grabbing (“accaparramento delle terre”) si è diffuso a macchia d’olio senza subire battute d’arresto, ricalcando antichi squilibri di potere e segnando l’emergerne di nuovi. Una pratica dilagante e trasversale che arriva a bussare alle porte dell’Europa. Pubblichiamo di seguito l’intervista realizzata al fotografo Simone Donati, membro del collettivo TerraProject, all’indomani della presentazione parigina del loro ultimo libro “Land Inc.”.

Prima di addentrarci nel vivo della questione, facciamo un piccolo passo indietro. Quest’anno TerraProject ha compiuto il suo decimo anniversario, celebrando l’evento con la pubblicazione di Memorandum. L’opera ripercorre i luoghi che hanno caratterizzato questa prima parte della vostra carriera. Soffermandoci sui progetti frutto del lavoro collettivo, è possibile notare come l’afflusso di quattro produzioni fotografiche differenti confluisca in un discorso omogeneo e lineare. In questa direzione, qual è il vostro approccio alle storie? È cambiato nel corso degli anni?

Il nostro metodo nei progetti collettivi è sempre stato quello di creare un corpo di lavoro che potesse costituire la somma degli sguardi individuali, generando a tutti gli effetti un quinto fotografo. In quest’ottica, di volta in volta, stabiliamo delle linee guida in merito a quell’insieme di elementi che deve poi risultare coerente: dall’utilizzo di un determinato formato, all’approccio con i soggetti e con il paesaggio. Questo schema è rimasto perlopiù immutato nel tempo e lo si può riscontrare anche in Land Inc., sebbene le ultime immagini risalgano ormai a tre anni fa. Un sistema leggermente diverso dal solito è stato adottato in occasione del più recente Memorandum, realizzato tra il 2015 e il 2016 durante un viaggio in camper. In questo caso la divisione del lavoro è stata meno uniforme, con Rocco che si è occupato principalmente dei testi, Pietro delle interviste, Michele ed io di quelle foto – relativamente poche, trattandosi di luoghi e racconti già affrontati – che tutti avevamo già in mente. La coerenza di stile ravvisabile in queste opere è presente anche nel commissionato per “la Repubblica”, incentrato sulle zone terremotate del Centro Italia. In definitiva, sotto questo punto di vista il nostro approccio non è cambiato. L’indice di un cambiamento rispetto al passato risiede, tutt’al più, nel prediligere lavori che ci impegnano sul medio-lungo periodo e, sul versante estetico, nell’abbandono del formato quadrato; un’evoluzione, questa, già presente in Memorandum e che dovrebbe persistere anche nel nostro prossimo progetto.

Intervista a Simone Donati (TerraProject)

Parliamo di Land Inc. e del land grabbing. Da alcuni demonizzato come la forma più subdola di neocolonialismo, da altri ritenuto un’opportunità per l’emancipazione economica di numerose tra le zone più arretrate del pianeta. Di questa seconda fazione fanno parte gli stessi governi dei paesi target. Sulla carta appare come un’operazione virtuosa ascrivibile, in gergo, ad una retorica di tipo win-win: nessuno dei due attori perde, entrambi si arricchiscono a vicenda. Quanto c’è di autentico in questo quadro? Si tratta davvero di una possibile soluzione alla povertà degli Stati interessati o è una maschera dietro la quale si celano i più classici meccanismi dell’imperialismo?

È molto difficile avere un’opinione categorica in merito. Durante i viaggi che ci hanno portato a contatto con sette paesi differenti, abbiamo appurato in prima persona quanto il fenomeno sia variegato e controverso; a partire dalla definizione stessa di land grabbing, che risulta riduttiva e caricata di una negatività intrinseca. Certamente è fuori discussione come ai livelli più alti – quelli inerenti agli affari di multinazionali, grosse corporation, governi – questa pratica sia da considerarsi estremamente vantaggiosa: si acquistano ingenti quantità di terreni in un qualsiasi sud (e non solo) del mondo, dopodiché si è liberi di gestirli più o meno senza alcun vincolo. Di segno generalmente opposto è l’esperienza delle collettività locali e dei lavoratori, sebbene anche in questo caso non mi sento in diritto di fare di tutta l’erba un fascio. Vi sono esempi in cui i contadini convivono serenamente con la situazione, percependo uno stipendio che permette alle loro famiglie di condurre un’esistenza dignitosa; tuttavia, rapporti distesi con la forza lavoro non vanno di pari passo con impatti sostenibili anche sotto gli altri aspetti, in primis quello ambientale. Altre volte, a prevalere sono i soprusi derivanti dagli espropri a danno delle comunità indigene, come ho avuto modo di documentare in Madagascar. Qui una parte della popolazione è a rischio per il venir meno degli zebù e dei pascoli dove allevarli, sostituiti da piantagioni di Jatropha curcas, un arbusto da cui estrarre biocombustibile.

Intervista a Simone Donati (TerraProject)Il land grabbing mescola le carte in tavola anche sotto l’aspetto geopolitico, infrangendo il paradigma che vede contrapposti nord e sud, est ed ovest del mondo. Ucraina e Russia sono i paesi più “grabbati” subito dopo l’Africa, mentre Malesia ed Emirati Arabi fanno la parte del leone seguendo a ruota la superpotenza statunitense nella corsa all’oro “verde”.

Assolutamente sì. Un ulteriore esempio può essere quello di alcune ditte indiane che posseggono svariati terreni in Etiopia, a dispetto di quanto possano suggerire concezioni ormai sorpassate degli equilibri economici mondiali.

Tra il 2002 e il 2013, nelle Filippine, sono stati assassinati 67 attivisti che protestavano in difesa dell’ambiente e del diritto alla terra. Peggio soltanto in Honduras e Brasile. Dalle statistiche sembra d’intuire che le critiche non vengano viste di buon occhio. In che modo viene organizzato il dissenso? Cosa si riesce ad ottenere?

Escluse l’Ucraina e Dubai, in tutti gli altri Paesi – Indonesia, Brasile, Etiopia, Filippine e Madagascar – abbiamo verificato la presenza di movimenti e ONG che si occupassero dei diritti dei lavoratori (organizzazioni che rappresentavano anche i nostri contatti nei vari territori). Ottenere dei risultati è molto complicato ma possibile, come dimostrato dalle rivendicazioni contadine del Movimento Sem Terra brasiliano, fondato nel 1984; o come nelle Filippine, dove le istanze legate alla lotta al land grabbing trovano sponda politica nel partito Anakpawis, che nel 2013 e nel 2016 ha ottenuto un seggio in parlamento. Un discorso simile andrebbe fatto per l’Indonesia. Questi tre Stati costituiscono il cuore pulsante della protesta. Un caso a sé è quello dell’Ucraina, dove è attiva un’associazione che si oppone agli espropri dei terreni sui quali dovrebbero sorgere dei grattacieli. L’ennesimo esempio di come il fenomeno sia poliedrico e non si limiti alle ripercussioni legate all’agricoltura. Al contrario in Etiopia, considerata la culla del land grabbing, non abbiamo riscontrato movimenti di tipo sindacale a livello contadino; in compenso erano presenti alcune grosse organizzazioni europee.

Intervista a Simone Donati (TerraProject)Hai accennato alle ONG presenti sul territorio, specificando come abbiano rappresentato i vostri primi contatti. Ritornando sull’aspetto tecnico dell’approccio e della pianificazione, ricordi episodi in cui vi è stato negato l’accesso?

La tolleranza era diversa da Paese a Paese. In Etiopia, grazie ad un regista francese e all’organizzazione GRAIN, riuscimmo ad entrare in contatto con un fixer che fu molto abile nell’ottenere gli accessi a diverse aree e società operanti nella zona. In Madagascar non ebbi la stessa fortuna e mi soffermai unicamente sull’aspetto contadino. Nel capitolo relativo al Brasile, al contrario, sono presenti entrambi gli aspetti. E ancora, in Indonesia e nelle Filippine non abbiamo ottenuto i permessi per fotografare le industrie. Da parte nostra è ovvio che ci fosse l’interesse nel documentare quanto più possibile da vicino. Scrivevamo alle aziende del luogo – a volte edulcorando quali fossero gli intenti finali del nostro racconto – ma l’ultima parola spettava sempre a loro. Uno dei divieti ci ha anche impedito di realizzare un ottavo capitolo, quello sulla Borsa alimentare di Chicago, nonostante avessimo dalla nostra diverse lettere de «L’Espresso» e del «Wall Street Journal» dove venivano specificati i motivi della nostra ricerca. Probabilmente il fatto che all’epoca avessimo già pubblicato del materiale permise a chi di competenza di “fiutare” l’aria, di conseguenza è comprensibile che alcune realtà non vollero essere associate al fenomeno. In questo senso la curatrice dei testi presenti sul libro, Cécile Cazenave, ha compiuto un lavoro capillare nell’accertarsi che le didascalie delle immagini aderissero alla mutevole realtà dei fatti, controllando se al momento della pubblicazione del libro tutte le aziende citate fossero ancora operative o meno.

A proposito della pubblicazione di Land Inc., poco tempo prima della sua uscita avete optato per il lancio di una campagna di prevendita. Cosa ne pensi del crowdfunding? Da alternativa indipendente all’editoria “classica” sembra essere diventato, da diversi anni, l’unico modo per approdare alla pubblicazione del proprio lavoro.

Qualche settimana prima dell’uscita abbiamo dato il via alle prevendite, dove oltre al libro si poteva acquistare anche dell’altro, dai gadget alle stampe. Era anche possibile, grazie alla partnership con la società italiana Treedom, piantare degli alberi in Africa per compensare l’anidride carbonica emessa durante la realizzazione del progetto. L’editore è Intervalles, che ne ha pubblicato una versione inglese ed una francese (dal titolo Terres à vendre). A dirla tutta, le copie di Land Inc. vendute preventivamente non sono state tantissime, in quanto è un’opera definibile quasi di settore che mal si presta ad una prevendita del genere. Ben diverse erano state le sorti della raccolta fondi per 4, libro concepito in collaborazione con Wu Ming. In quel caso l’insieme di tante componenti – la forma cofanetto, l’Italia al centro della narrazione, non per ultimi i testi in italiano del collettivo bolognese – aveva reso il tutto più allettante dal punto di vista commerciale. Un esempio virtuoso di crowdfunding è il recente Terra Nostra di Mimi Mollica, fotografo nostrano di base a Londra da diversi anni. I suoi meriti nell’approccio promozionale uniti all’assoluta validità dell’opera e del tema trattato (gli effetti della mafia in Sicilia), hanno fatto in modo che la cifra ottenuta sia stata il doppio di quella richiesta inizialmente. Il ricorso al crowdfunding credo abbia un senso quando si tratta di libri, quindi di prodotti in parte già elaborati, o relativamente a quei progetti dov’è fondamentale l’aspetto partecipativo degli acquirenti; lo reputo meno opportuno quando si attua prima della realizzazione del lavoro stesso. In ogni caso bisogna fare attenzione nel pensarlo come una panacea alla crisi del mercato editoriale.


Nuovi progetti: cosa c’è nel futuro di TerraProject e cosa nel tuo?

Per adesso stiamo concentrando il nostro impegno sul racconto del post-terremoto per “la Repubblica”, che durerà un anno. Alla fine contiamo di avere un corpus di fotografie abbastanza ampio da poter realizzare una mostra. Per il futuro abbiamo delle idee che speriamo di mettere in pratica a partire dal prossimo anno, ma ancora nulla di meglio definito. Per ciò che mi riguarda, invece, sono alle prese con un nuovo progetto per il quale ho rispolverato la mia vecchia abitudine di scattare in pellicola. Anche io al momento ho abbandonato il quadrato, sposando la visione più allargata del 6×7. È un viaggio che ripercorre l’Appennino meridionale, partendo dalla Calabria e arrivando in Molise. Miro a fotografare la dimensione quotidiana di queste zone che, come diversi entroterra del Sud, dagli anni ’50 sono caratterizzate da migrazioni generazionali verso il Nord o l’estero; per il resto mi piacerebbe scardinare quella visione dominante che identifica intere regioni con la criminalità organizzata. Non intendo negare che il fenomeno sia presente, ma sicuramente c’è tanto altro meritevole di maggiore attenzione. Mi auguro che anche questo lavoro, come il precedente Hotel Immagine, possa alla fine prendere la forma di un libro.