di Valerio Di Martino
Il 30 e il 31 Ottobre, durante la nuova edizione del Festival Closer – Dentro il reportage, si terrà a Bologna il Workshop di Paolo Marchetti “Raccontare per immagini”
Come ti sei approcciato alla fotografia?
La fotografia è sempre stata innanzitutto un’attitudine, un modo di assistere e guardare la vita. Fondamentalmente, fare fotografie senza lo strumento tra le mani è da sempre una costante. Diventare professionista mi ha solo messo di fronte al mestiere e alla tecnica. Ed ha amplificato la vocazione per la relazione umana necessaria, che fonda il desiderio di raccontare gli altri. L’innesco fu un libro documentario sulla vita dei Kennedy. Vidi la famosa fotografia dell’assassinio di Lee Harvey Oswald e mi fu spiegato che quell’immagine congelava un istante realmente accaduto. Per me, che avevo circa dodici anni, quel concetto così potente rappresentò, probabilmente, l’inizio di una grande storia d’amore.
Qual è stato il tuo primo lavoro? Come sei riuscito a realizzarlo?
Se non ricordo male, il mio primo tentativo fu nel cortile del condominio dove crebbi. Realizzai un rullino di fotografie raccontando quei dieci o quindici ragazzini che giocavano con la terra. Io partecipavo, raccontando agli altri.
Perché hai scelto il documentario e non altri generi? Che cos’è per te il documentario?
La documentazione rappresenta per me l’alibi più dignitoso per nutrire la mia coscienza sociale e assistere in prima persona alla vita; soprattutto quella distante dal mio rigoglioso e rassicurante giardinetto di casa. Continuo a credere che cercare l’arte nella vita reale, mediante il gesto fotografico con la sua essenziale funzione sociale, rappresenti la forma più interessante al mondo. Fotografare è soprattutto il coraggio di voler capire e guardare in faccia agli altri. Fotografo perché voglio invecchiare bene.
Quanto è importante viaggiare per crescere come fotografo?
È importante leggere, direi. È importante essere curiosi e sviluppare una consapevolezza nei confronti dell’atto fotografico e dei soggetti che si desidera ritrarre, ricordandosi che sono persone e non volumi da organizzare all’interno di un fotogramma. Se scegli la Fotografia sociale devono piacerti gli individui. Altrimenti fotografi mele, automobili, albe.
Quanto è importante, invece, il rapporto che crei con i soggetti che fotografi? Come ti avvicini a loro?
La mia fotografia è la conseguenza di un incontro. Lo pretendo da me e non potrebbe essere altrimenti. Anzi, probabilmente non sarei neppure capace di raccontare se non desiderassi di pormi come Paolo e non come Fotografo che esercita il suo mestiere, brandendo il codice deontologico a mò di perfetto alibi. Viene prima il mio codice umanistico, di cittadino, di amante della vita. Mi avvicino con grazia perché le foto non si chiedono, né si rubano. Questo funziona per me.
Di che cosa parla Fever? Ci sono state difficoltà nel realizzarlo?
Fever è un’indagine sulla rabbia e su uno dei modi in cui viene incanalata ideologicamente nelle società di mezzo mondo. Non c’è politica nel mio trattato fotografico. Piuttosto, ho perseguito un approccio antropologico umanistico. Ci ho impiegato cinque anni per realizzare questo progetto. In cinque differenti paesi europei. E tutto questo tempo è stato necessario per costruire la relazione necessaria con i soggetti, non certo per realizzare quelle quarantacinque fotografie. Ho incontrato difficoltà importanti, spesso delicate.
Che consiglio daresti a chi vorrebbe seguire la tua strada?
Consiglierei di capire davvero cosa nutre l’interesse verso un genere fotografico così intimo. Chiedersi perché è un buon inizio. Poi consiglierei di leggere meno fotografia e più arte, politica, storia, romanzi, saggi e fumetti. Il bagaglio culturale ed empatico sono le micce da accendere mediante la documentazione per immagini. Ma senza un buon alibi non si può commettere quel fatale gesto senza infrangere l’intimità degli altri.